scritto da Redazione Ulisseonline - 27 Maggio 2021 11:08

A colloquio con Filippo Durante: “Servalli mi sembra l’immagine di un Sindaco alla finestra”

“Servalli ha capito quali sono i bioritmi della città e ha adeguato ad essi l’incedere della sua gestione. Lui, che ben conosce il settore delle assicurazioni, azionando il freno si è garantito l’assicurazione sulla vita, ovvero la permanenza sullo scranno più alto”

 

 

Il viaggio di Ulisse alla ricerca della buona politica continua incontrando un giovane e affermato avvocato cavese: Filippo Durante.

Avvocato Cassazionista, con proprio Studio di fronte alla Sinagoga di Roma, Filippo Durante, dopo la laurea in Giurisprudenza, ottenuta con lode all’Università «LUISS», ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Diritto Civil-Romanistico presso l’Università «La Sapienza» di Roma. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche, tra cui due monografie, edite la prima da Giuffré e la seconda da Giappichelli. Si occupa di Diritto Civile, con particolare attenzione al diritto bancario e al diritto dei mercati finanziari.

Filippo Durante vive a Roma ma non ha mai reciso i contatti con la sua città di origine, nonostante il Covid.

Un giudizio sereno e spassionato sull’attuale Amministrazione in questi primi mesi del secondo mandato del sindaco Servalli.

Da osservatore esterno, ho l’impressione che l’avvio del secondo mandato del sindaco Servalli sia stato piuttosto indolente.

Qualcuno ricorderà che, all’inizio degli anni Novanta, Raffaella Carrà incantava gli italiani con il gioco del “Se fosse”. Ebbene, se fosse un quadro dell’Ottocento, oggi il primo cittadino sarebbe più il “Jeune homme à la fenêtre” di Gustave Caillebotte che “Il viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Anziché scavalcare con lo sguardo la vista del brumoso orizzonte attuale, per scorgere con lungimiranza il futuro, il Sindaco sembra scrutare meditabondo alla finestra un campo visivo assai più limitato. Quasi a voler frenare ogni potenziale guizzo di irrequietezza.

Cava, alle recenti elezioni, ha premiato Vincenzo Servalli proprio per la sua capacità di mediazione e per questo suo atteggiamento, posato ed equilibrato, da socialista tutt’altro che rampante. La nostra è una città conservatrice non solo nei valori e nelle tradizioni, ma anche nell’attaccamento geloso allo status quo. Da una parte, si lamenta perennemente, come in un’incessante nenia, dell’immobilismo; dall’altra, ha bisogno di tempo per metabolizzare le innovazioni. Ecco perché le accelerazioni di Messina e Gravagnuolo, rispettivamente nei settori delle opere pubbliche e del terziario di qualità, vennero inizialmente mal digerite.

Servalli, che è intelligente, ha capito quali sono i bioritmi della città e ha adeguato ad essi l’incedere della sua gestione. Lui, che ben conosce il settore delle assicurazioni, azionando il freno si è garantito l’assicurazione sulla vita, ovvero la permanenza sullo scranno più alto.

Non è un caso se, come slogan della sua campagna elettorale,il sindaco ha scelto “La forza tranquilla”: una formula sartoriale che era stata coniata da Jacques Séguéla per François Mitterrand in vista delle politiche del 1981, volta a rassicurare i francesi, diffidenti proprio di fronte al rischio di un eccessivo cambiamento. Dopo il giro di boa delle elezioni, tuttavia, il Sindaco deve sforzarsi affinché venga rispettata anche la promessa di solidità (oltre a quella di prudenza) insita in questo messaggio elettorale. Il pericolo, altrimenti, è che “La forza tranquilla” divenga un ossimoro che esprime solo contraddittorietà, ambiguità e un certo senso di incompiutezza.

Le vicende della frana di Vietri (che ha condotto a un’apertura gratuita a singhiozzo del nostro casello autostradale, con costi elevati solo per la nostra comunità) e del piano vaccinale (che almeno inizialmente ha registrato a Cava dei rallentamenti maggiori rispetto ad altre realtà territoriali, pur appartenenti alla medesima ASL) sono emblematiche. Esse hanno restituito – a torto o a ragione – l’immagine di un Sindaco, per l’appunto, alla finestra, apparentemente dotato di scarsa forza contrattuale e, pertanto, marginale sul proscenio dello scacchiere politico provinciale. La sensazione, insomma, è che la luna di miele tra il Servalli-bis e alcuni strati dell’opinione pubblica si sia prematuramente conclusa.

E’ ancora troppo presto, tuttavia, per giudicare. E’ possibile, infatti, che alcune turbolenze siano ascrivibili a fisiologici problemi di amalgama nello spogliatoio, per utilizzare il gergo calcistico. Dopotutto, la maggioranza che appoggia il primo cittadino appare oggi assai eterogenea, avendo inglobato anche espressioni del centrodestra. La speranza è che, a seguito del rodaggio, si cementi la coesione tra antichi avversari politici, alleatisi mediante una fusione a freddo a dire il vero un po’ posticcia. Per tornare a Gustave Caillebotte, sarebbe bello immaginare i consiglieri comunali impegnarsi all’unisono nell’interesse della città, un po’ come i piallatori di parquet del famoso dipinto del Museo d’Orsay. Magari, a partire dalla gestione dei finanziamenti in arrivo per i Programmi Integrati Città Sostenibile: un’occasione davvero da non perdere.

 

“Ho l’impressione che il ceto politico attuale sia ancora troppo fragile: non adeguatamente preparato, autorevole e smaliziato per tenere testa ai dirigenti”

 

E un giudizio nel suo insieme sulla classe politica cittadina emersa dalle ultime elezioni comunali?

Rifuggo dalla comoda tentazione di effettuare confronti con il passato. Ad esempio: con la classe politica che ha visto protagonisti degli autentici giganti (Abbro, Virtuoso, Panza, Romano); con la società civile che aveva animato Alleanza di Progresso; con la storia più recente, che pure ci ha riservato la contemporanea presenza nella stessa assise di personalità dello spessore di Messina e Gravagnuolo.

Per attitudine personale, non mi piace ragionare con lo specchietto retrovisore, né compiere analisi con gli occhiali della nostalgia. Si tratta di stagioni politiche tra loro incomparabili. La pretesa di effettuare paragoni con il passato rischierebbe di condurre a giudizi ingenerosi nei riguardi di chi ha deciso oggi di impegnarsi in politica: una scelta, questa, che merita rispetto perché, se effettuata seriamente, implica considerevoli rinunce.

Compiuta questa premessa, vedo luci e ombre.

Rilevo con soddisfazione, innanzitutto, che la mia generazione è ottimamente rappresentata. Anche a voler giudicare solo i protagonisti che conosco meglio – Antonella Garofalo e Lorena Iuliano in Giunta, Federico de Filippis in maggioranza, Raffaele Giordano in minoranza- mi sembra che i quarantenni siano scesi in campo con un Dream Team. Se ad essi aggiungiamo la schiera dei trentenni – tra quelli a me più noti, Pasquale Salsano dell’opposizione – risulta consolidatosi un promettente ricambio generazionale. In un settore tradizionalmente tacciato di gerontocrazia, abbiamo assistito, se nona una rottamazione silenziosa, quantomeno a una boccata d’aria fresca.

Registro anche un ulteriore elemento positivo: la trasformazione de «La Fratellanza» da lista civica apparentemente rabberciata a movimento politico strutturato. Il principale merito del vulcanico Petrone è stato quello di coinvolgere nell’agone politico anche settori della città tradizionalmente sotto rappresentati. In zona Cesarinisi è così ravvivata una competizione amministrativa che appariva già segnata, nella quale quasi tutta la «Cava-bene» aveva compiuto aprioristicamente la propria scelta (per convinzione, per interessi o per semplice conformismo). Il consolidamento della forza civica capitanata dall’ex frate francescano può contribuire ad arricchire il dibattito pubblico, anche mediante il coinvolgimento di categoriesociali altrimenti trascurate.

Un altro segnale ben auspicante proviene dal fatto che almeno due altre forze politiche, quantunque non premiate, hanno condotto campagne elettorali molto serie. I Cinque Stelle, abbandonati i toni giacobini, si sono presentati con il volto garbato di un ingegnere competente- più simile per stile a Giuseppe Conte che a Beppe Grillo – qual è Giuseppe Benevento. Potere al Popolo ha portato una ventata di entusiasmo giovanile, concentrandosi sulla «carne viva» dei problemi (più che sulla stanca litania di ideologie sorpassate) e assumendo le sembianze di «coscienza critica» della sinistra. Un’attività – soprattutto quella di Davide Trezza e compagni – che, sono certo, proseguirà anche fuori dal Palazzo.

Quanto alle note dolenti, segnalo il trasformismo. E’ vero che le diverse famiglie politiche, a Cava, affondano le proprie radici nello stesso tessuto sociale, essenzialmente borghese, per cui i confini tra di loro sono più labili che altrove. Ciò non giustifica, tuttavia, la repentina e funambolica transumanza non solo di personale politico, ma anche di interi strati di società, sul carro che a un certo punto è apparso come probabile vincitore. La sponsorizzazione a Servalli è apparsa per alcuni come dettata, più che da un intimo convincimento, da autoreferenziali calcoli circa la preservazione della propria posizione, l’occupazione di nuovi spazio l’ottenimento di qualche prebenda.

Inoltre, ho l’impressione che il ceto politico attuale sia ancora troppo fragile: non adeguatamente preparato, autorevole e smaliziato per tenere testa ai dirigenti, e dunque molto incline a finire imprigionato nella ragnatela della burocrazia; non sufficientemente tetragono nella gestione delle società partecipate (al punto che in alcuni frangenti noto addirittura una subalternità del Comune rispetto alla Metellia).

Infine, due ulteriori note critiche.

La prima riguarda il meccanismo di riproduzione dell’élite locale. Registro un eccesso di figli (o nipoti) d’arte: Garofalo, de Filippis, Cirielli, Iuliano, Narbone, Galdo, Altobello. Come se la passione per la politica a Cava sgorgasse solo iure hereditatis.

La seconda concerne la scarsa rappresentanza cavese a livello regionale e nazionale. Cava si conferma: troppo grande, e dunque attraversata da troppe divisioni, per convogliare nelle elezioni sovra-comunali voti trasversali su una personalità unitaria, diversamente rispetto a ciò che accade nei paesi; troppo piccola e isolata per esprimere un candidato di una sola parte politica, che sia seriamente in grado di competere in tale tipo di competizioni. Ciò purtroppo ha condotto negli anni – gutta cavat lapidem – a una progressiva e penalizzante marginalizzazione degli interessi della città sullo scenario provinciale.

 

“Non mi sembra che Cava stia vivendo una stagione particolarmente elettrica. Anche io ricordo, negli anni Novanta, una città più frizzante, attraversata da fermenti politici, culturali, folkloristici, sportivi”

 

Se la classe politica non brilla non è che poi in città quella che un tempo si chiamava società civile sembra dare segni di vita. Un tempo l’associazionismo, di qualsiasi tipo, da quello ambientale a quello culturale o sportivo, si faceva sentire, ora è calato un preoccupante silenzio e l’emergenza pandemica ha accentuato un fenomeno che era già presente da tempo.

Esiste una relazione biunivoca tra qualità della classe politica e vitalità della società civile.

Da una parte, una città viva, pulsante e stimolante costituisce il terreno fertile per la selezione di rappresentanti migliori; dall’altra, una classe politica appassionata – che non si arrocca nel Palazzo- accende scintille, mette in circolo energie,stimola la coscienza civile,contagia con il suo entusiasmo e trascina con sé, in un circuito virtuoso, la macchina amministrativa e i settori più dinamici del tessuto sociale. La scarsa esuberanza della società civile, in altri termini, non può quasi mai essere motivo di auto-assoluzione per la politica.

Non mi sembra che Cava stia vivendo una stagione particolarmente elettrica. Anche io ricordo, negli anni Novanta, una città più frizzante, attraversata da fermenti politici, culturali, folkloristici, sportivi. Rammento tuttavia che anche allora si favoleggiava con rimpianto di fasti ancor più risalenti, forse immaginari, in virtù dei quali Cava asseritamente primeggiava in ogni settore.

Insomma, da una parte, ho anche io l’impressione che oggi Cava sia meno vivace, più pigra e più sfilacciata rispetto al passato, quantomeno dal punto di vista dell’associazionismo politico e culturale. Non vorrei, dall’altra parte, che questa valutazione fosse oltremodo condizionata da quello che mi piace definire “l’astigmatismo della nostalgia”, vale a dire dalla naturale tendenza umana a caricare di affetto (e, dunque, a osservare in maniera deformata) i ricordi della propria adolescenza.

Piuttosto, l’inclinazione delle élite culturali a rintanarsi nelle proprie enclave (oltre che dei professionisti ad asserragliarsi nei propri studi) e la frantumazione dei corpi intermedi costituiscono tendenze nazionali. Cava non è immune da questi fenomeni.

Ciò nonostante, in città si respira ancora, pur se sfibrata, una certa connaturata propensione delle persone a fare comunità. Un’attitudine alla partecipazione attiva e propositiva che, però, andrebbe canalizzata in forme aggregative qualitativamente meno rudimentali, in modo da riattizzare un fuoco che non si è mai spento.

 

“La politica ha iniziato ad abdicare al suo ruolo formativo e ha scelto la scorciatoia più comoda: inseguire gli umori del giorno, divenendone subalterna”

 

La crisi dei partiti e della politica è evidente, ma sembra andata in tilt l’intera società civile, che si rifugia sempre più nell’agorà virtuale dei social, i quali hanno sì un ruolo e una loro indubbia forza, ma che alla lunga si limitano a dare voce alla protesta, rivelandosi così spesso autoreferenziali, se non scadono addirittura in vomitatoi di inusitata violenza verbale…

I social network – dall’avvento di Obama in poi – hanno profondamente cambiato la politica.

Da una parte, hanno rappresentato un potente fenomeno di aggregazione, sia pur virtuale, di disintermediazione e di comunicazione orizzontale: hanno offerto a ciascun cittadino (senza la necessità di recarsi allo Speakers’ Corner di Hyde Park o al cospetto della statua di Pasquino a Roma) un megafono per rappresentare le proprie istanze e opinioni.

Dall’altra, Facebook e Twitter sono assurti a strumenti di banalizzazione della complessità (dei “bar sport” sempre aperti), di atrofizzazione del dibattito e di schiacciamento dell’opinione pubblica su friabili pettegolezzi o su fuochi fatui. Nel migliore dei casi, creano il rischio di un attivismo lento (quello che i tecnici definiscono “slacktivismo”): danno l’illusione di essere parte della discussione pubblica per il sol fatto di aver apposto un like volante dal proprio salone di casa. Nel peggiore dei casi, sono arene ingessate in un perenne scontro tra tifoserie. In entrambi i casi – sommersi come siamo da un pulviscolo di sovrabbondanti informazioni, pillole, cinguettii o calembour– abbiamo poche occasioni per una reale intelligenza degli avvenimenti e per analizzare e sviscerare le questioni. Zygmunt Bauman a tal proposito ha evidenziato che la comunicazione ha soffocato la comprensione e il «pensiero lungo»; Manuel Castells ha utilizzato l’infelice espressione «autismo elettronico». Sta di fatto che la politica ha iniziato ad abdicare al suo ruolo formativo e ha scelto la scorciatoia più comoda: inseguire gli umori del giorno, divenendone subalterna. Tutto è divenuto liquido storytelling, con il conseguente ripudio di ogni elemento che implichi necessità di approfondimento.

Con il tempo, queste piattaforme sono via via divenute anche ricettacolo di frustrazioni e malumori, talvolta espressi in modo sguaiato. Ciò, per di più, in un’epoca di disincanto verso la politica, la quale – come in un cortocircuito, proprio per la sua estrema volatilità – ha progressivamente perduto di credibilità.

Il Covid ha ulteriormente accentuato questo malessere. Ridotte drasticamente le occasioni di partecipazione alla vita pubblica, Internet ha acquisito il monopolio della socialità (ma sarebbe meglio parlare di “interconnessione tra solitari”). Inoltre, dopo una prima fase in cui ha prevalso la solidarietà, il protrarsi della pandemia ha logorato ed esasperato gli animi, ha prodotto lacerazioni e ha incattivito ciascuno di noi, l’un contro l’altro armati.

Cava non poteva sfuggire a fenomeni di così ampia portata, benché le eccellenze metelliane si distinguano sempre. Plaudo ad esempio al tentativo, partorito dalla Professoressa Maria Olmina D’Arienzo, di “piegare” i social network alla logica delle idee e del garbo, con una pagina Facebook imperniata sulle proposte e sulla cultura. Mi sembra che lo stesso centrodestra cittadino abbia avuto, se non altro, il merito di calibrare la propria campagna elettorale, anziché sulla trivialità che spesso caratterizza tali piattaforme, sulla signorilità – talvolta, persino eccessiva – di Marcello Murolo.

 

“Registro talvolta reazioni oltremodo scomposte da parte di alcuni esponenti gravitanti attorno alla maggioranza, che in alcune occasioni millantano di portare sulle spalle il peso dell’universo e invocano, per questo, totale immunità dal dissenso”

 

Ciò nondimeno, l’Amministrazione comunale cavese, come qualunque altra, viene bersagliata sui social network da lamentele anche mordaci, benché, a dire il vero, nella maggior parte dei casi civili. A tal proposito, registro talvolta reazioni oltremodo scomposte da parte di alcuni esponenti gravitanti attorno alla maggioranza, che in alcune occasioni millantano di portare sulle spalle il peso dell’universo e invocano, per questo, totale immunità dal dissenso. Interventi sopra le righe, a volte persino supponenti e rancorosi, che rivelano una pericolosa assuefazione al potere, un’idea proprietaria della funzione pubblica e una proterva insofferenza alle critiche: come se ogni censura costituisse di per sé un’espressione di lesa maestà.

La critica, invece, è il lievito della democrazia; il governare comporta onori e oneri; l’arroganza nell’esercizio del potere alla lunga è esiziale: è sufficiente rispolverare la drammaturgia classica per averne contezza. A riguardo, più d’uno, anche in Giunta, dovrebbe andare a lezione dal sindaco, i cui post, invece, si caratterizzano sempre per eleganza e autoironia.

Ha ragione, a riguardo, Valeria Mancinelli, sindaco di Ancona, nel suo bel libro “I principi del buongoverno”: spetta proprio agli amministratori locali riacciuffare la realtà. La politica, in una comunità, è anche attivazione di meccanismi emotivi e sentimentali e non può ridursi solo a logica e raziocino. Bisogna pertanto aver rispetto anche della “pancia” dell’elettorato: non blandirla, alimentando pulsioni primitive o accarezzando impulsi animaleschi, ma neanche liquidarla con altezzosità e snobismo, come dall’alto di un piedistallo.

Nella nostra città come si può portare la politica, la buona politica, nuovamente al centro del dibattito cittadino e come strumento di confronto e di costruzione? Ammesso che questo sia possibile…

Immergendosi nelle molteplici sfaccettature e fratture di un organismo vivente, quello della città, che per definizione è polifonico. Ascoltando le persone e intercettando i loro problemi concreti. Compiendo una seria analisi dei bisogni. Coinvolgendo le varie anime di Cava nel governo della complessità e nell’elaborazione di proposte concrete, nonché di una strategia generale di governo del territorio. Sradicando gli intellettuali dai loro recinti e i professionisti dal loro particulare, affinché contribuiscano a disegnare le direttrici della città del futuro. Mettendo in circolo le idee, affinché l’innato senso di appartenenza, il “sentimento della città” che ci contraddistingue, non si riduca a sterili declamazioni o ad atteggiamenti di chiusura, ma si traduca in progetti moderni di sviluppo e di crescita. Instaurando un confronto con chi altrove è apripista e fautore di buone prassi. Non accontentandosi di governare le contingenze, ma coltivando l’ambizione di innescare il cambiamento,di costruire una visione prospettica partecipata, di immaginare il centro e le frazioni tra trenta o quarant’anni.

Un laboratorio di partecipazione, questo, della cui realizzazione si dovrebbero incaricare le forze politiche. L’impressione, tuttavia, è che esse non solo siano impermeabili agli stimoli esterni, ma addirittura abdichino intenzionalmente a tale funzione: interessate piùall’auto-conservazione di rendite di posizione, equilibri e gerarchie interne che a reclutare nuove teste pensanti. Alcuni partiti, da questo punto di vista, sembrano contenitori vuoti, refrattari ad aggregare energie e imperniati solo sulla fedeltà personale.

 

“Diffido delle scuole di formazione politica, almeno nella formula con cui vengono organizzate oggi. Si tratta più di passerelle per comizi di politici nazionali che di vere palestre di apprendimento”

 

E, impresa forse ancora più ardua, come favorire la crescita e l’emergere di una classe politica cittadina che abbia un livello medio di maggiore competenza, preparazione, lungimiranza?

Non dispongo di una ricetta magica: tanto più in un’epoca in cui i partiti hanno perso la loro funzione formativa – hanno smesso le vesti di “grandi comunità discenti e docenti”, per usare le parole di Luciano Violante-, anche a causa della chiusura delle sezioni locali.

Al massimo posso individuare, tra i tanti, alcuni ingredienti necessari.

Senz’altro, occorre un’inversione di rotta rispetto al costume diffuso e alle dinamiche corrose che si attuano nei meccanismi di selezione della classe dirigente. Ai pacchetti di voti, che con veri e propri salti acrobatici traslocano da destra a sinistra e viceversa ogni cinque anni, deve prediligersi l’apporto delle persone in termini di competenza, umana e professionale, di impegno e di passione.

Inoltre, sarebbe opportuno assicurare, sia pur nell’ambito di un delicato equilibrio tra decisionismo e democrazia,una trasmissione capillare della conoscenza. Ad esempio, il sindaco e gli assessori dovrebbero coinvolgere i consiglieri comunali, specie i più giovani, nelle dinamiche amministrative che conducono alla risoluzione dei problemi, trasmettendo loro il bagaglio di cognizioni ed esperienze acquisito. Ciò consentirebbe anche di prevenire l’emergere del malcontento all’interno del Consiglio comunale, i cui esponenti non di rado si sentono derubricati al ruolo di soprammobili. Inoltre, gli attori del territorio dovrebbero essere coinvolti il più possibile nei processi decisionali e negli iter procedurali,con assemblee sul territorio, con tavoli di partecipazione, ma anche con metodologie maggiormente evolute (a patto però che non si tratti di consultazioni infinite volte solo a procrastinare il momento delle decisioni). Si creerà così un vivaio di classe dirigente che avrà dimestichezza con gli ingranaggi, anche tecnici,dell’amministrazione e con i meccanismi di funzionamento della cosa pubblica.

Diffido, invece, delle scuole di formazione politica, almeno nella formula con cui vengono organizzate oggi. Si tratta, infatti, più di passerelle per comizi di politici nazionali che di vere palestre di apprendimento.

 

“Ci si siede in Consiglio comunale per contribuire a migliorare la città, non per curare il proprio orticello, non per solleticare la propria vanità e neanche per pubblicizzare, come con un biglietto da visita, la propria attività professionale”

 

Secondo lei, quali requisiti di base, irrinunciabili, dovrebbe avere chi si propone come amministratore della nostra città, soprattutto in questi tempi bui e di vacche magre, dove c’è poco da distribuire e molto da chiedere alla comunità?

Anche in questo caso, non so fornire un identikit. Non ci sono algoritmi, né esistono formule precostituite. La politica non ha manuali.

Ognuno deve calibrare il proprio impegno a seconda del ruolo, del carattere, dell’approccio emotivo, del metodo di lavoro, della sensibilità,delle esperienze professionali che gli sono propri.

Esistono, tuttavia, delle caratteristiche imprescindibili.

Innanzitutto, chi si propone come amministratore deve nutrire, come un sacro fuoco, un inossidabile e incondizionato amore per Cava, oltre a un’autentica passione civile. Non coltivare interessi egoistici. Ci si siede in Consiglio comunale per contribuire a migliorare la città, non per curare il proprio orticello, non per solleticare la propria vanità e neanche per pubblicizzare, come con un biglietto da visita, la propria attività professionale. Il potere deve essere interpretato come uno strumento per incidere sulla realtà, trasformandola, e per far accadere le cose, senza anteporre a ciò ambizioni individuali. Si tratta di un discrimine addirittura etico.

Inoltre, occorrono senz’altro: l’onestà, la lealtà, il senso civico –  da praticare più che da declamare – e le altre imprescindibili virtù umane che rendono retta una persona (tra cui il rispetto per le istituzioni e per l’avversario);l’attitudine all’ascolto (che implica umiltà e non alterigia), ma anche la predisposizione ad assumersi la responsabilità del decidere, dopo aver ascoltato il giusto; l’esercizio – faticoso, metodico, tenace e perseverante – dello studio e dell’aggiornamento; la curiosità e l’allenamento a esercitare la capacità critica; la confidenza con il fare squadra,il saper delegare e a chi delegare; la propensione ad avere le antenne levate sull’esterno e la consapevolezza del fatto che il mondo non si ferma alle Camerelle o alla Tengana.

E ancora: la vocazione a farsi carico della realtà e a prendersi sulle spalle i problemi; la disponibilità a ficcare le mani anche nei dossier più scomodi e intricati,con lo scopo di sbrogliare le matasse; l’abilità nel compiere le scelte con il tempismo giusto; la forza di metterci la faccia; il coraggio di apporre le firme, anche sottoponendosi al rischio di incorrere in procedimenti penali, sul presupposto imprescindibile di avere la coscienza a posto; la capacità di non scoraggiarsi al cospetto di lungaggini, inciampi e complicazioni; la tendenza a non trincerarsi dietro gli alibi; l’onestà intellettuale, che si esprime, a seconda dei casi, nel saper tenere ostinatamente la rotta anche nelle avversità, come dei carri armati, o nel fare ammenda degli errori e cambiare strategia, senza intestardirsi in soluzioni impraticabili. (foto Aldo Fiorillo)

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