Può esistere una sociologia del jazz?
Per celebrare la Giornata Mondiale del Jazz analizziamo il fenomeno musicale sotto il profilo sociologico
A quasi un quinquennio dalla sua morte e nell’attuale globalizzazione ciò che tuttora ricorre con una certa frequenza è un concetto coniato dal creatore di un altro iper-concetto, quello della ‘modernità liquida’: la ‘musica liquida’.
L’allusione è al sociologo Zygmunt Bauman, che nella prefazione al mio libro, Una storia sociale del jazz, ha affermato che la musica è legata ai sentimenti e provoca un’attività cerebrale inconscia quindi può diventare parte integrante dello sviluppo mentale. Gli uomini sono molto più capaci di quanto la società permetta loro di essere. Sicuramente anche la branca dei jazzisti improvvisatori si sono accorti che ora questo tempo ferito e frammentato sia diventato il Tempo e la quotidianità di tutta una società, scuotendoli non poco.
Peraltro i rapidi sviluppi cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni nel campo dell’antropologia, dell’etnologia, della sociologia e delle scienze umane in generale sembrano avere incontestabilmente posta in primo piano l’importanza della musica per lo studio e la comprensione di una cultura. D’altro canto, da quando, superata l’estetica crociana, si è potuto guardare ai fenomeni letterari senza prescindere da un contesto storico e sociale, ma anzi investigando dialetticamente sui rapporti fra società e manifestazioni culturali, i compartimenti stagni che separavano letteratura e scienze sociali hanno perso molta della loro rigidità e della loro capacità di tenuta. È quindi oggi tutt’altro che azzardato affermare che un quadro generale della cultura americana non può essere completo senza una attenta considerazione del folclore afro-americano, del quale è la peculiarità più notevole.
È assiomatico il processo di alienazione patito dagli schiavi africani in America e il successivo processo di riconquista di un significato umano realizzato dagli stessi. Sotto alcuni aspetti i neri hanno incontrato maggiori difficoltà di quante non ne abbiano incontrate le altre minoranze, ed è abbondante la letteratura che illustra il cammino di queste difficoltà tra musica e storia culturale, ecco perché si fa spesso riferimento alla antropologia musicale, al fine di scandagliare in vitro l’«uomo che fa musica» malgrado la ripugnante condizione sociale o, meglio, asociale in cui versava.
Già dallo scorso millennio in etnomusicologia la musica viene utilizzata per la ricostruzione della storia culturale, da quando cioè si sono adottate delle metodologie basate sulle teorie antropologiche evoluzioniste e diffusioniste. Col tempo, però, questi studi sono passati di moda poiché lo schema teorico adottato si era dimostrato falso e lacunoso; solo negli anni più recenti si assiste ad una rinascita di questi studi specie in rapporto alle analisi delle società africane; in questo caso infatti il problema della ricostruzione della teoria culturale è particolarmente sentito per motivi politici, teorici ed empirici. Gli studiosi di storia africana si servono di una enorme varietà di strumenti di indagine e si rivolgono a discipline diverse come l’archeologia, lo studio della letteratura orale, l’etnografia distribuzionalista, la linguistica, la botanica, le arti visive e, recentemente, la musica. In quest’ultimo caso, naturalmente, la domanda che ci si pone riguarda il tipo di contributo che la musica può dare agli studi di storia culturale.
Ovviamente la prima cosa da chiedersi è cosa si debba intendere per «ricostruzione della storia culturale», come la musica possa essere utilizzata a tal fine. In primo luogo, una parte della storia culturale del modo di vita, in altre parole diciamo che nella cultura di un popolo sono sempre presenti degli elementi che ci informano sui modo di vivere di questo popolo. Perché queste descrizioni siano complete si può far ricorso ai resoconti storici o agli scavi archeologici che, come si sa, ci informano su un periodo di tempo molto ampio. Un metodo del genere, dunque, ci informa sul modo di vita e quindi anche sulla musica di un popolo. Inevitabilmente quando pensiamo alla ricostruzione della storia culturale dobbiamo tenere conto della dinamica complessiva dello sviluppo storico, quindi considerare la modificazione culturale e la storia dei processi che si sviluppano nel tempo. Per questi motivi ogni teoria che cerchi di spiegare tali processi e che intenda metterci in grado di ricostruire quanto è avvenuto nel passato, deve essere presa in considerazione dagli etnomusicologi, in quanto anche la musica deve essere vista in questa prospettiva dinamica.
Infine se usiamo uno strumento specifico -in questo caso la musica- dobbiamo porci inevitabilmente alcune domande sulla unicità o la specificità dello strumento analitico con cui tentare di risolvere i1 problema della ricostruzione storica. Giova evidenziare l’importanza potenziale della musica in ordine a questi problemi che varia per via di alcune sue caratteristiche speciali. Sappiamo che nessuna cultura incolta ha sviluppato un sistema di notazione musicale; ciò significa che non è possibile ricostruire la forma della musica in maniera precisa. Certamente si sono fatti molti tentativi in tal senso, sia approfittando di speciali tecniche archeologiche che applicando a priori una teoria antropologica; ma tutti questi tentativi non sembra abbiano avuto molto successo. Quindi per la ricostruzione della storia culturale nel suo complesso non serve limitarsi a tracciare una improbabile storia del suono. Peraltro studiare la musica afro-americana non significa studiare soltanto il suono ma anche gli atteggiamenti sociali i quali, a loro volta, hanno un’esistenza storica. Sono quindi due gli aspetti che bisogna tenere presenti per una ricostruzione storica, e che possono essere considerati isolatamente o insieme, a seconda delle necessità. Infine il suono musicale ha tre caratteristiche principali che sembrano avere un valore particolare nella ricostruzione dei contatti culturali. Sulla base di queste caratteristiche è possibile ridurre il suono a valori statistici, questa particolare tecnica può rivelarsi in futuro uno strumento analitico particolarmente importante.
Sappiamo che nella misura in cui un’opera musicale è realistica (in altre parole, nella misura in cui riflette fedelmente la vita umana e sviluppa la sua tecnica per rappresentarla nel modo più completo possibile) essa rappresenta una parte imperitura della cultura del suo creatore, della sua razza. Essa appartiene pero ad un’epoca determinata e, nonostante tutta la sua potenza, non può soddisfare pienamente i bisogni culturali delle epoche successive, poiché ha creato e imposto nuovi problemi e sviluppato nuove idee.
Per questo diventa necessario creare nuovi lavori, sollevare nuovi problemi di tecnica e di forma che si innestino sull’eredità del passato. Non tutti i lavori hanno la stessa possibilità di sopravvivere. La storia della musica afro-americana contiene infatti grandi esempi di realismo e innumerevoli di formalismo, di ferree costrizioni, e di un impegno ottuso dei modi tradizionali per impedire agli uomini di comprendere e dominare il proprio mondo. Questo che stiamo affrontando vuol essere un’analisi dell’evoluzione del significato della musica jazz. Esso non è una storia della musica, ma deve necessariamente affrontare il soggetto da un punto di vista storico e sociologico, dando qualche idea del modo in cui ha progredito tra nuove esperienze, nuovi problemi, nuove idee e nuove mentalità.
A tal riguardo esiste una sociologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e sociologico. Ai musicologi fornisce una conoscenza di base necessaria alla produzione di tutti i suoni musicali attraverso la quale il suono e il processo sonoro possono essere pienamente compresi. Quanto ai sociologi, il contributo dell’etnomusicologia costituirà un ulteriore passo avanti nella comprensione sia dei prodotti che dei processi della vita, poiché la musica non è altro che un elemento che si aggiunge alla complessità del comportamento umano. Laddove non esistono uomini che pensano, agiscono e creano, il suono musicale non può esistere; comprendiamo la musica nera negli Stati Uniti molto meglio che non l’intera organizzazione della sua produzione. Forniamo, quindi, un supporto tecnico allo studio di questa musica in quanto comportamento umano: chiarire il tipo di processo che deriva da fattori antropologici e musicologici insieme, migliorare infine la nostra conoscenza di entrambe le discipline, sotto la comune prospettiva di studi comportamentali e sociali. Nel presentare una teoria e una metodologia dello studio della musica afro-americana in quanto comportamento umano bisogna risalire ad un concetto fondamentale qual è quello dell’european-mind nel Nuovo Mondo e delle sue conseguenze sociali e concettualizzate. Senza dubbio c’è un’analogia tra i problemi del comportamento creativo umano e la coscienza sociale che ogni cultura manifesta. Ed è proprio da qui che deve partire qualsiasi studio socioantropologico ovvero dal preadamitismo alla conseguente teoria razziale. Se l’obiettivo principale del preadamitismo, nella sua veste biblica, è indubbiamente interno alla polemica politico-culturale europea –dimodoché la ricerca delle sue cause storiche coinciderebbe, rispetto all’Inghilterra almeno, con la ricerca delle cause storiche del deismo- altrettanto indubbio è che già nella sua veste biblica il preadamitismo assume un significato ben specifico nel campo delle ideologie coloniali.
E un po’ tardi ora per giustificare il riferimento alle tradizioni africane quando si discute di folclore musicale nero in America. Se molti spirituals neri si svilupparono da spirituals bianchi o viceversa è di poca importanza quando si considera il patrimonio folcloristico musicale nero-americano nella sua complessità. Il campo è vasto ed è difficile esplorare o approfondirvisi ulteriormente senza riconoscerne l’eredita africana. Ciò non significa stabilire l’assioma che la musica nera degli States sia africana ma che molte peculiarità degli stili musicali dell’Africa persistono ancora oggi. Diverse di queste peculiarità di razza sono concetti melodici o ritmici: alcuni si trovano nelle relazioni tra voci e tra voci e strumenti; altri sono negli stessi strumenti e nel loro uso. Altri ancora si trovano nei concetti di suono strumentale e vocale, in conflitti incidentali con scale tradizionali western, in azioni motorie associate con il canto e la danza, nonché in atteggiamenti verso la musica ed il ‘far musica’. Che la musica nera negli Stati Uniti sia prevalentemente americana è anche evidente. Poteva prevalere solo in America, dove elementi di culture specifiche si fondevano, cosa che non accadeva altrove.
I semi-europei ed africani si innestarono per produrre risultati soddisfacenti nelle isole spagnole dei Caraibi, nelle isole inglesi e in quelle francesi. Cosa ben diversa accadde in Brasile e Venezuela dove il processo di fertilizzazione degli stili musicali continua, ma elementi della tradizione europea e ovest-africana sopravvivono, talvolta anche in forma pura. Nei tempi in cui l’analisi della musica di colore in America dipendeva dal paragone con motivi europei e africani alquanto noti, era facile -forse- accettare il fatto che tratti europei, in primo luogo inglesi, irlandesi e scozzesi, avevano quasi annullato l’ultima vestigia della tradizione musicale africana.
Adesso si è consapevoli che questa conclusione è inadeguata. Tra l’altro, i campioni africani erano talmente radi che il nostro sistema convenzionale di annotazione musicale non era abbastanza adatto per riprendere esattamente le varie caratteristiche della musica africana, quelle famose peculiarità del folclore musicale nero. Si dubita, perfino, di esempi afro-americani che, analizzati in vitro, potessero rappresentare un vero e proprio spaccato di quella razza.
Dunque l’elemento africano sopravvive soltanto nella tradizione popolare: e se sembra ormai dimostrato che l’origine dei folktales non è specificatamente africana, come invece si era spesso creduto in passato, tutti concorrono nel ritrovare questa origine per quanto riguarda la musica nera, ed in particolare lo spiritual ed il blues.
Ho apprezzato molto l’articolo sulla sociologia del jazz!