Cava de’ Tirreni, a colloquio con Francesca Manfredi ospite di Centopagine
"Questo è un romanzo, non è un saggio, e racconta la storia di un personaggio che si interroga sulle relazioni che la fanno stare male e alle quali cerca di sottrarsi", afferma l'autrice
Martedì scorso presso la libreria indipendente Centopagine, la giovane autrice reggiana, residente a Torino, Francesca Manfredi, ha dialogato con Francesco Annarumma -cavese, autore di “Non è polvere da sparo” CasaSirio Editore – per presentare il suo ultimo romanzo “Il periodo del silenzio” edito da La nave di Teseo.
Ulisse online l’ha intervistata.
“Il periodo del silenzio” racconta di Cristina, una bibliotecaria di 28 anni che, senza apparenti ragioni, decide di attuare un graduale suicidio sociale scegliendo di non parlare più. Che tipo di messaggio vuole inviare la sua soluzione?
In questo libro in particolare credo di aver posto molte più domande di quante risposte ci siano e di quante risposte la stessa Cristina poi regala al lettore. Il libro è nato da una serie di miei interrogativi personali che sono scaturiti dalla storia di una ragazza che aveva smesso di parlare, così ho creato un personaggio, che è quello di Cristina: la protagonista doveva essere un personaggio molto interrogatorio sia verso sé stessa sia verso le persone che la circondano nelle dinamiche del tessuto sociale delle relazioni che una ragazza comune di 28 anni è abituata a frequentare; effettivamente nella gran parte del romanzo si pone tante domande e non tutte hanno una risposta né la ricevono all’interno del libro quindi più che di “messaggio” si può parlare sicuramente di “tema”. Nel libro di temi ce ne sono tanti: sicuramente uno è il silenzio e l’altro è la comunicazione, o meglio la relazione; ma questo è un romanzo, non è un saggio, e racconta la storia di un personaggio che si interroga sulle relazioni che la fanno stare male e alle quali cerca di sottrarsi.
Cristina dice che nel 99,9% delle volte la comunicazione verbale non è necessaria. Pensi che nella nostra società la comunicazione verbale sia ancora necessaria o ci sono valide alternative?
Cristina è un personaggio molto radicale che pratica una scelta estremamente radicale e quindi è difficile per il lettore capirla e condividerla. Io non credo che gli estremi siano la soluzione ma quello che Cristina detesta è il chiacchiericcio, l’ ipercomunicazione che passa anche attraverso i social ma poi sfocia nella realtà: infatti sui social siamo sempre più invogliati a dare la nostra opinione su qualsiasi cosa, magari coinvolti da un’impressione di giustizia o di verità, ed è proprio questo che a Cristina infastidisce. Dopo aver pubblicato questo libro sono entrata a conoscenza di tante storie di ragazzi che praticano isolamento sociale o mutismo selettivo e questo è davvero un grosso punto nero della contemporaneità, sul quale bisogna fare sempre più informazione. Quindi c’è assolutamente bisogno della comunicazione verbale e di una consapevolezza che passi dal linguaggio che definisce le emozioni perché se noi riusciamo a dare un nome alle emozioni che proviamo riusciamo a codificarle anche meglio. La stessa Cristina non utilizza quasi mai il termine “depressione”, e se lo fa le costa molta fatica perché cerca di negare a tutti gli effetti e questo non fa che allontanarla poi da una cura: dare un nome alle cose è fondamentale come fondamentale è l’aiuto, che nello sviluppo del libro subentra nell’ultima parte. Mi interessava narrativamente esplorare invece un paradosso e un estremo: capire che cosa c’è dietro la comunicazione non verbale, ecco quindi che Cristina diventa sempre più attenta ai gesti e al contesto che circonda il linguaggio che però -dice Cristina- è ingannevole solo per chi non la sa leggere e per chi non la pratica.
Se Cristina avesse voluto tornare sui suoi passi e riprendere a parlare, cosa avrebbe potuto convincerla a farlo?
Forse l’unica cosa che l’avrebbe convinta sarebbe stata un po’ di comprensione dalle altre persone, però allo stesso tempo mi domando: di fronte a una persona non diagnosticata come depressa che nega di avere dei problemi come si potrebbe reagire? Cristina si rifiuta di parlare e quando ci troviamo davanti una persona che non vuole parlare, ci sentiamo parte del problema, quindi è difficile mettere da parte tutti i nostri preconcetti per provare a dare una mano. Secondo me è abbastanza usuale che in presenza di una patologia un aiuto importante non arrivi o comunque che non sia determinante nonostante ci siano buone intenzioni; di fatto questa è anche una storia di dipendenza in quanto Cristina diventa progressivamente dipendente dall’isolamento dal silenzio e chi circonda quella persona si sente di fatto impotente.
“Il periodo del silenzio” è il tuo terzo libro dopo la raccolta di racconti “Un buon posto dove stare”, che ha vinto il Premio Campiello Opera Prima, e il romanzo “L’impero della polvere”. Hai sempre avuto la vocazione da scrittrice?
Quando andavo alle scuole elementari mi piaceva tantissimo scrivere e dicevo che avrei voluto fare la regista perché pensavo che il regista fosse lo sceneggiatore. Poi ho studiato cinema ma non per scrivere storie. Invece dopo l’università ho recuperato la creatività e ho cominciato a scrivere racconti.