A colloquio con Autilia Avagliano, autrice di Din Don Down presente al Salerno Letteratura Festival
Buongiorno Autilia, oggi (ieri per chi legge) alle 21:30, presenterai il tuo “Din Don Down! La storia di Alberto e della sua famiglia che imparò a volare con lui”, edito da Marlin, nella splendida cornice del Teatro Convitto Nazionale nell’ambito del Salerno Letteratura Festival. Ti aspettavi questo invito?
Sapevo che la casa editrice aveva proposto il mio libro ma poi è la direzione del Festival a decidere quali libri e quali autori saranno presenti, dunque essere stata selezionata è stato motivo di contentezza e gratificazione per me e per la casa editrice, oltre che per la mia famiglia, naturalmente. Spero di poter in questo modo avere l’opportunità di aggiungere un piccolo tassello nella mia battaglia di apprezzare, rispettare e accogliere la diversità di cui ognuno di noi è portatore.
Tu non fai la scrittrice di professione, sono perciò curiosa: come nasce questo libro?
In realtà, a me piace scrivere e questo libro viene da lontano. Mi sono accorta che da quando è nato Alberto, il mio secondo figlio, ho sempre scritto, disseminando appunti qua e là. Scrivendo il libro ho trovato che i primi appunti risalgono al 2003. Inizialmente tuttavia non scrivevo pensando di raccontare all’esterno la mia storia, scrivevo per cercare le risposte dentro di me. Sotto questo punto di vista, la scrittura è davvero terapeutica. In un secondo momento, mi sono resa conto che alcune cose che avevo scritto potevano servire al mio primo figlio, Mario, per fornirgli strumenti per capire, spiegazioni. Infine, l’idea del libro, come mezzo per far conoscere la realtà di una famiglia in cui vive un figlio disabile.
Hai accennato al fatto che hai due figli: Mario, il primogenito, e Alberto, il secondogenito, nato con la sindrome di Down. Nel libro racconti di una famiglia molto unita. Come si fa a mantenere l’equilibrio? Non c’è mai stato il rischio di riservare il massimo delle attenzioni al figlio che sembra necessitarne di più, a scapito dell’altro?
In realtà il rischio forse in teoria esiste. In pratica, non credo si sia mai verificato. L’amore non si misura in base alla quantità del tempo speso ma in base alla qualità. Io e mio marito Paolo abbiamo sempre cercato di essere vigili e spostare l’attenzione dall’uno all’altro in base alle esigenze. Si tratta perciò di equilibrio dinamico pronto a modificarsi di volta in volta. Certo, crescendo le difficoltà per un genitore aumentano anziché diminuire e per noi donne lavoratrici è forse anche più difficile ma qui si apre un altro discorso di cui potremo magari parlare un’altra volta.
Tornando al libro, quando Alberto nacque, la strada fu decisamente in salita, anche o forse soprattutto perché il mondo all’epoca non sembrava fatto per accogliere e supportare i bambini con disabilità e le loro famiglie. È ancora così la situazione?
Voglio guardare li bicchiere mezzo pieno perché sono una persona ottimista. Rispetto ad allora si sono fatti dei passi in avanti, soprattutto per quanto riguarda l’efficienza della burocrazia, anche grazie alla digitalizzazione dei sistemi informatici. Sotto questo punto di vista, sono di recente rimasta stupita dal grande passo in avanti fatto dall’INPS, un carrozzone che finalmente sembra perfettamente oliato e funzionante. Tuttavia, ancora tanto c’è da fare. Sicuramente in Italia abbiamo una buona legislazione che è già un ottimo punto di partenza. Il problema vero è che questa spesso resta lettera morta o, almeno, così capita in alcuni posti. Esistono anche province virtuose nel nostro Belpaese in cui la lettera della legge sembra diventare realtà concreta.
Mi fai un esempio di contenuti legislativi che meriterebbero più attenzione e applicazione?
Un esempio che mi viene è quello della costruzione del c.d. “Progetto di vita”, un progetto appunto che dovrebbe partire dai primissimi anni del bambino per poi accompagnarlo sino al momento del suo inserimento lavorativo per renderlo preparato al mondo del lavoro. Questo Progetto di vita dovrebbe essere costruito di concerto tra quattro attori: famiglia, Asl, Servizi Sociali, Comune. Se fosse attuato sul serio, si potrebbe garantire effettivamente al giovane disabile l’accesso al mondo del lavoro, diversamente diventa un contenitore vuoto e fondamentalmente inutile.
Ci vuole un cambio di prospettiva praticamente.
Esatto, il soggetto fragile non deve essere più considerato il destinatario finale dei servizi sociali ma come attore del processo, penso sia questa la strada per non parlare più di inclusione ma viverla.
Un’ultima domanda: mi parli di vivere l’inclusione. C’è uno spazio che conosco abbastanza bene, quello della letteratura, dove a me sembra che questo che tu auspichi, sia già realtà. Mi riferisco a scrittori, le cui doti sono riconosciute a livello internazionale e la cui disabilità al contrario semplicemente non rileva. Tra questi, mi viene in mente Naoise Dolan, presente proprio oggi anche lei al Salerno Letteratura Festival e in gara per il Salerno Libro d’Europa. Ne conosci altri? Magari potremmo farne un gruppo di lettura.
Ti lascio con qualche idea di lettura: “A disabilandia si tromba” di Marina Cuollo, “Parole tra le ciglia” di Lola D’Arienzo, “Giù per la salita. La vita raccontata da uomini e donne con Sindrome di Down” di Carlo Scataglini e Martina Fuga, “Faccio grandi salti” di Iacopo Melio. Io per il gruppo di lettura ci sono.