Il femminicidio di Saman e la libertà delle donne
Questa sentenza di appello è molto attesa. Costituirà un segnale importante e decisivo per tante giovane italiane di seconda generazione ancora vessate dal fanatismo culturale e religioso, che ostacola se non addirittura impedisce loro di vivere in piena libertà secondo gli usi e i costumi del Paese, l'Italia, in cui sono nate e cresciute

A quasi quattro anni di distanza dal delitto, è iniziato iniziato ieri a Bologna il processo d’appello per l’assassinio di Saman Abbas, la ragazza italiana di 18 anni uccisa dalla sua famiglia pachistana. E il cui corpo fu ritrovato quasi un anno e mezzo dopo. Saman non voleva accettare il matrimonio combinato, imposto dalla famiglia, in ossequio alla tradizione culturale e religiosa del paese di origine. Da qui il femminicidio. Assurdo, crudele, odioso e inaccettabile. Nel processo di primo grado i giudici hanno condannato all’ergastolo i genitori di Saman, Nazia Shaheen e Shabbar Abbas. Ad uccidere Saman fu però materialmente lo zio, Danish Hasnain, condannato a 14 anni. Questa sentenza di appello è molto attesa. Costituirà un segnale importante e decisivo per tante giovane italiane di seconda generazione ancora vessate dal fanatismo culturale e religioso, che ostacola se non addirittura impedisce loro di vivere in piena libertà secondo gli usi e i costumi del Paese, l’Italia, in cui sono nate e cresciute. Sarà, in conclusione, una sentenza che dovrà riaffermare in modo inequivocabile la libertà delle donne. Per tutte le donne.