Brutte storie finora occultate
Concludiamo questo triste argomento, la cui prima parte è stata pubblicata mercoledì 20 marzo.
Suor Giusi ha raccontato le violenze subite da vari sacerdoti.
Oggi ha 73 anni e ha rivelato le sue esperienze al giornalista Iacopo Scaramuzzi di Repubblica, raccontando quello che ha subito per anni.
Nel 1963 la famiglia di Giusi pensa che per lei il convento sia la soluzione migliore.
Appena bambina, Giusi si trova a lavare, asciugare e piegare la biancheria di 160 preti e seminaristi di un’abbazia della zona.
Niente scuola, nessun contatto con la famiglia, lei e le altre non potevano neppure indossare il reggiseno perché era considerato un atto di vanità. Restrizioni e sacrifici che dovevano, ricorda oggi, portarle a una santità che nessuna aveva chiesto.
La ex suora ricorda anche punizioni terribili: baciare per 50 volte il pavimento solo per aver canticchiato; oppure i pugni alla schiena che la superiora le dava per farla rimanere sveglia durante la messa in latino all’alba.
La prima violenza sessuale avviene però in Congo, dove Giusi viene inviata nel 1988, dopo 12 anni passati all’ospedale Santo Spirito di Roma.
Il suo sogno è di fare la missionaria in Africa, ma ben presto il tutto si trasforma in un incubo: inviata a recuperare dei farmaci terminati nell’ospedale per cui lavora, suor Giusi pernotta in una casa del suo ordine religioso dove vive un gruppo di preti e seminaristi, ma durante la notte viene violentata da un sacerdote.
“Ricordo il dolore fisico, il dolore morale, il dolore di tutto e poi ero terrorizzata di essere rimasta incinta”.
Oggi, spiega, quel sacerdote è parroco in Belgio.
Per lei le molestie continuano una volta tornata in Italia, quando riprende il suo post al Santo Spirito.
Proprio lì, sul posto di lavoro, scopre anche alcuni imbrogli, che denuncia alla superiora.
Una sera il padre provinciale insiste per darle un passaggio, ma a un certo punto accosta con l’auto in una zona in penombra, e prova ad aggredirla.
Lei si difende, lui si masturba e riprende a guidare.
Come la prima volta, la religiosa non denuncia: “Non mi avrebbero creduta” dice.
Solo dopo suor Giusi matura la decisione di scrivere una lettera anonima, e poi di andare dal padre generale; con il tempo, scopre che quel sacerdote aveva molestato molte altre donne, e aveva lasciato loro lividi e ferite, nel corpo ma soprattutto psicologiche.
Eppure, al momento della morte per lui c’erano stati un bel funerale e parole di encomio, cosa che Giusi non si spiega.
“Non mi do pace, io l’ho denunciato, altre donne lo hanno denunciato, i padri sapevano… E non hanno fatto niente”.
Suor Giusi decide di denunciare un altro episodio, quello di un importante sacerdote, rettore di un’università cattolica, che la fa entrare nel suo ufficio e le poggia la mano sul suo pene eretto.
Quando deciderà di parlarne, si sentirà dire da un confratello: “Sappiamo, sappiamo… .Quelle parole le ho ancora oggi nel cervello: Lo sapevano, perché non lo ha fatto solo con me” commenta Giusi.
Suor Giusi ha un dubbio: “Se con me ha osato tanto, non posso pensare cosa avrà fatto alle novizie appena arrivate dall’India o dall’Africa a cui faceva da padre spirituale. Una di loro anni fa si è suicidata buttandosi dalla finestra, ho sempre pensato che l’avesse violentata”.
Eppure, anche quel religioso è rimasto impunito, morendo serenamente nel suo letto.
Solo nel 2.000 suor Giusi decide di andarsene, ma si vede negare tutto dal suo ordine religioso, persino i contributi dovuti.
“Dopo 36 anni in convento, 12 ore al giorno di lavoro, non mi hanno dato neanche un euro per comprarmi il primo vestito da laica a cinquant’anni”.
Scrive persino una lettera a Giovanni Paolo II, a cui le superiori rispondono con una falsa lettera di accuse.
“Tutti hanno fatto in modo che io non facessi uno scandalo”, spiega adesso.
E, alla domanda sul perché non se ne sia andata prima, risponde: “Avevo fatto i voti davanti a Dio, in cui credo. Prego a casa mia. Sento che lui è qui, molto più che da loro. Mi hanno fatto troppo male”.