Era innocente, ma venne perseguitato per salvare il Regime
Qualche settimana fa abbiamo detto che non occorre andare tanto lontano, nel tempo e nello spazio, per trovare “Storiacce” avvincenti, a volte basta percorrere pochi chilometri e scorrere la cronaca di qualche giorno per trovarsi di fronte a situazioni al limite del credibile, come, ad esempio, ciò che accade quasi quotidianamente al Parco Verde di Caiavano.
Ma ciononostante la rete web ci fornisce quotidianamente anche storie datate che stimolano l’interesse del cronista e lo spingono a sottoporle ai suoi lettori.
Come, ad esempio, questa che stiamo per raccontare, avvenuta circa cento anni fa, esattamente nel 1922-1923 fino al 1927, praticamente dal nascere del regime fascista di Benito Mussolini in avanti.
Si tenta conto che la “Marcia su Roma”, organizzata da Mussolini e dai suoi fans, fu fatta il 28 ottobre del 1922, una esibizione paramilitare, che esercitò una travolgente pressione che favorì il colpo di stato che portò al potere Benito Mussolini.
Tutti sanno che tra i tanti pilastri del fascismo c’era il desiderio incrollabile di legge e ordine, oltre che della patria e famiglia, e tanto ancora.
In questo quadro sembrava inammissibile che un delitto rimanesse irrisolto e impunito per qualche tempo; così come una delle fisime del regime era che i treni arrivassero in orario, nella convinzione che ciò stesse a significare l’ordine, un’altra era che per qualsiasi delitto o presunto tale, venisse scoperto immediatamente il responsabile, perché ciò stava a significare la efficienza degli organi investigativi fascisti, costantemente vigili nella difesa dei cittadini.
Ed è in questo quadro della società fascista che si inserisce la vicenda di Gino Girolimoni, definito il “mostro di Roma”, accusato ingiustamente di essere un serial killer di bambine, sul quale nel 1972 il Regista Damiano Damiani ricavò anche un film interpretato da Nino Manfredi nel ruolo del presunto mostro.
Tutto comincia nel marzo 1924, e sono cinque le vittime che vengono attribuite a Girolimoni e che lo trasformano da un giorno all’altro nel mostro della capitale.
Ma altrettanto rapidamente su di lui cala il silenzio a causa di un “caso eccellente”, il rapimento di Giacomo Matteotti, che poi verrà ammazzato il 10 giugno 1924.
È una Roma pigra e sonnolenta quella del tardo pomeriggio del 31 marzo 1924, una città che ancora non ha guardato in faccia il vero volto del fascismo ma che lentamente si sta preparando a esserne travolta.
La primavera è arrivata presto, e la temperatura alle sei di sera è mite, tanto che i ragazzi, nonostante l’ora, giocano ancora nei giardini di piazza Cavour, a pochi passi da Castel Sant’Angelo.
Tra loro ci sono Emma Giacomini, 4 anni e mezzo, e il suo fratellino; ad accompagnarli al parco è la tata che, a cadenza regolare, li cerca con lo sguardo mentre chiacchiera con le altre bambinaie.
All’improvviso, non li vede più e li chiama per nome, ma nessuno risponde; li cerca allora tra gli alberi e le siepi, ma dei due bambini non c’è traccia.
Due ore più tardi il sole è tramontato. Un bambino piange davanti al cinema di piazza Cola di Rienzo; non sa spiegare perché è lì: sa dire solo di voler tornare ai giardinetti dove c’è la sorella.
Poco lontano, una donna che abita alle falde di Monte Mario sente delle urla nel buio che avvolge gli orti vicini a piazzale Clodio.
Strizza gli occhi e finalmente scorge una bambina nuda che stringe in mano le sue mutandine e attorno al collo ha un fazzoletto legato stretto, troppo stretto.
È Emma Giacomini.
All’ospedale dove la portano immediatamente dicono che ha delle escoriazioni su tutto il corpo, compresi i genitali. Alcuni testimoni in caserma giurano di aver visto un uomo di circa 45-50 anni, alto 1 metro e 70, con un cappotto scuro e un cappello nero, portare la bambina dietro a una siepe; le urla della piccola devono averlo spaventato.
Per i genitori la notizia è un sollievo: è viva e non c’è stato stupro.
Sessantaquattro giorni dopo, il 4 giugno 1924, a Via del Gonfalone, a pochi passi dalle Carceri Nuove, Bianca Carlieri, tre anni e otto mesi, gioca davanti a casa.
In famiglia la chiamano la “Biocchetta” per via della sua mansuetudine e di una menomazione alla mano che la rende più timida degli altri; dice di sì a tutti e a tutti ubbidisce.
E dice di sì anche all’uomo elegante col volto spigoloso, i baffi chiari e il soprabito grigio che l’avvicina e le chiede di seguirlo; le ha detto di essere suo zio e che vuole comprarle delle caramelle, come racconterà in seguito una delle amiche di Bianca che ha assistito alla scena; i due se ne vanno, mano nella mano.
Quando la lavandaia Alessandra Negri, mamma di Bianca, si accorge della scomparsa, prima chiama la figlia, poi grida, infine corre disperata per il quartiere.
E quando arriva in lacrime al commissariato del rione Ponte nessuno l’ascolta: la sparizione della figlia di una lavandaia è poca cosa rispetto alla caccia ad antifascisti e comunisti che impegna da mesi le forze dell’ordine.
La mattina dopo, il 5 giugno 1924, una donna cammina lungo la linea ferroviaria che da Roma porta a Ostia, a circa 3 chilometri dalla casa della bambina, oltre alla Basilica di San Paolo, Roma Sud, zona di campi dove si raccoglie la cicoria.
Maria Durante è lì proprio per quello, quando vede un gruppo di maiali attorno a dei giornali.
Si avvicina, scosta un foglio e comincia a gridare con tutta la forza che ha in corpo, sembra impazzita.
La gente accorre e accorre anche il marito di Maria che pensa sia successo qualcosa alla loro figlia più piccola: sull’erba, sotto i giornali, c’è il corpo straziato di Bianca, poco lontano il suo vestitino e un fazzoletto con le iniziali R.L.
Il rapimento di Emma Giacomini, la prima bambina, non aveva trovato spazio sui giornali; la stampa aveva altro a cui pensare: la denuncia del socialista Giacomo Matteotti sui brogli che i fascisti avevano compiuto durante le elezioni svoltesi qualche mese prima.
L’assassinio di Bianca però non può essere ignorato; le edizioni pomeridiane dei giornali descrivono con dettagli macabri il ritrovamento del suo corpicino, e il risultato dell’autopsia: stuprata e strangolata.
Al funerale una folla segue il feretro. La gente si accalca, il corteo sbanda e qualcuno grida «morte all’infame!».
La polizia è sotto pressione. Il nuovo regime non può tollerare che si dica che è incapace di assicurare alla giustizia un assassino di bambine.
Il primo innocente a essere accusato è un vagabondo. Ma il direttore del dormitorio dove passa le notti riesce a scagionarlo.
Intanto, l’isteria dilaga. Due persone si tolgono la vita perché convinte che verranno accusate da vicini di casa rancorosi.
Poi, cala il silenzio. La stampa ha altro da raccontare: il rapimento (e poi l’omicidio) di Matteotti, al quale Mussolini l’ha giurata dalle pagine del “Popolo d’Italia”.
Ma il mostro è acquattato nell’ombra e il 24 novembre 1924 torna a colpire.
Rosina Pelli ha solo due anni e mezzo quando scompare dal portico di San Pietro.
La mattina seguente un fornaio scopre il suo corpo nei campi della Balduina, a circa 3 chilometri; anche Rosina ha «vastissime lacerazioni genitali», come recita l’esame autoptico.
Ai funerali partecipano 100 mila persone che vogliono vendetta; inutilmente.
Trascorrono altri sei mesi e il mostro colpisce ancora.
Il 30 maggio 1925 rapisce una bambina di sei anni, Elsa Berni, mentre sta andando a prendere l’acqua a una fontanella vicino a casa, nel rione Borgo, nei pressi di Castel Sant’Angelo.
Con lei c’è un’altra bambina che racconta di un uomo elegante che ha costretto Elsa a seguirlo.
All’alba del giorno dopo, il 31 maggio 1925, un netturbino scopre il suo corpo sulle sponde del Tevere, a pochi passi da ponte Mazzini.
I giornali nascondono la notizia nelle pagine interne perché le direttive del Ministero dell’Interno sono chiare: niente enfasi, niente fotografie.
La polizia non riesce a trovare il mostro e la stessa immagine di Mussolini ne è danneggiata.
Il 26 agosto 1925 scompare dalla sua cameretta Celeste Tagliaferro, di un anno e mezzo. Il mostro la porta nei pressi di via Tuscolana, a 15 chilometri di distanza dove abusa di lei e tenta di strangolarla con il pannolino. Ma l’arrivo provvidenziale di un passante le salva la vita.
Ma il mostro è sempre in agguato e Il 12 febbraio 1926 tocca a Elvira Coletti, di sei anni.
La piccola viene trascinata su una sponda del Tevere, dove viene picchiata e stuprata. Prima che il mostro riesca a ucciderla la bambina scappa.
Ora l’assassino si sente accerchiato, in troppi hanno visto il suo volto e per quasi un anno scompare dalla circolazione.
Ma è una tregua destinata a finire il 13 marzo 1927, quando su un prato dell’Aventino viene rinvenuto il corpo insanguinato di Armanda Leonardi, una bambina, 6 anni, che era sparita dal rione Ponte la sera prima: anche lei è stata soffocata.
Di nuovo la città eterna è scossa da un’ondata di orrore e indignazione: la polizia deve dare una risposta forte.
Il 9 maggio 1927 è l’agenzia di stampa Stefani ad annunciare che il mostro è stato catturato: l’incubo è finito.
Il capro espiatorio si chiama Gino Girolimoni, ha 38 anni, fa il fotografo e vive in una stanza in via Boezio.
In Questura cercano di farlo confessare nonostante sia evidente che non corrisponde all’identikit dell’assassino.
Girolimoni nega ma finisce comunque in isolamento per quattro mesi a Regina Coeli.
Solo l’8 marzo 1928 viene prosciolto «per non aver commesso il fatto».
Torna in libertà, ma la sua vita è rovinata e il suo cognome a Roma diventa sinonimo di pedofilo.
La polizia ha però un abile commissario che segue un’altra pista: è Giuseppe Dosi, che finita la guerra sarà tra i fondatori dell’Interpol.
Durante la detenzione di Girolimoni ha ottenuto di riaprire il caso perché, analizzando le testimonianze, si è reso conto che la descrizione del mostro gli ricorda quella di Ralph Lyonel Brydges, pastore protestante inglese alla Holy Trinity Church di via Romagna e che a Capri è stato fermato per aver adescato una bambina.
Il 13 aprile 1928 il commissario incontra il religioso e gli comunica di essere formalmente indagato per gli omicidi.
Durante una perquisizione nella sua stanza emergono numerosi indizi: un taccuino con annotati i luoghi in cui sono avvenute le sparizioni delle bimbe, e dei fazzoletti di lino bianco, simili a quelli usati negli strangolamenti.
Ma c’è di più: Dosi rinviene ritagli che parlano di omicidi di bambine avvenuti a Ginevra, in Germania e in Sud Africa, proprio quando il pastore si trovava in quei Paesi.
Il reverendo è sottoposto a una perizia psichiatrica che ne stabilisce la compatibilità con gli atti del mostro.
Ma vi sono delle circostanze che mettono in dubbio il suo coinvolgimento: non parla bene italiano ed è più anziano dell’uomo descritto dai testimoni.
Mussolini decide dunque di liberarlo, anche per le pressioni della chiesa anglicana.
Il 23 ottobre 1929 Brydges viene prosciolto con formula piena dalla Corte d’Appello, ma il reverendo, che morirà nel 1946, ha già lasciato da tempo l’Italia, per non farvi mai più ritorno.
Nel contempo il Commissario Giuseppe Dosi, fu osteggiato in tutti i modi perché aveva osato mettere in discussione la verità ufficiale della polizia del regime, convinto dell’estraneità di Girolimoni.
Il suo impegno fu duramente punito: venne arrestato e internato per diciassette mesi in un manicomio criminale, dal quale fu liberato solo nel 1940, e venne reintegrato nella Polizia solo dopo la caduta del fascismo.
Ebbe in seguito importanti incarichi anche internazionali e scrisse un libro sul caso.
Ma il mostro di Roma è ancora ufficialmente senza nome.
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