Dai Fenici ai tempi attuali
Il termine tortura, secondo Treccani, deriva da “torcimento”, e indica l’atto del torcere le membra a qualcuno, per punizione o per indurlo a confessare.
Sono pratiche consistenti in varie forme di coercizione fisica applicate a un imputato, a un testimone o ad altro soggetto, allo scopo di estorcere una confessione o altra dichiarazione utile all’accertamento di fatti non altrimenti accertabili.
Nella generalità dei casi il termine è attribuito a violenze fisiche, ma le violenze possono essere anche psicologiche.
E anche le violenze fisiche non vengono sempre somministrate in forma attiva, qualche volta possono essere anche passive, nel senso che il torturato viene tenuto immobile e lo si sottopone, ad esempio, a uno stillicidio: si pensi alla tortura della goccia di acqua che veniva praticata in Cina nei secoli scorsi.
Ma in qualsiasi modo la tortura venga somministrata, è sempre una cosa riprovevole; si spera o ci si illude che essa venga definitivamente debellata, pura utopia perché anche oggi non sono pochi i casi di tortura seguiti dalla morte, in tutti i paesi del mondo, con la prevalenza di quelli che sono sottoposti a regimi che non hanno in alcun conto lo stato di diritto, e non si adeguano alle norme internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo.
Detto questo, abbiamo scovato sul web una piccola storia delle pratiche di tortura dall’anno duemila a.C. fino ai tempi moderni, corredata di immagini a stampa che non destano raccapriccio; le immagini che quotidianamente ci somministrano le varie emittenti televisive e i social media sulle violenze che derivano da conflitti bellici, o sommosse di piazza e i social media sono molto più raccapriccianti.
La tortura ha radici millenarie che si perdono nella notte dei tempi. Le prime tracce della tortura risalgono già agli antichi Egizi, che fin dal XX secolo a. C. usavano metodi crudeli (soprattutto bastonate e frustate) per intimorire, punire o far confessare i malfattori o i nemici, con un denominatore comune, la crudeltà degli aguzzini ha sempre una pseudo giustificazione con un interesse superiore: la sicurezza dello Stato, l’ortodossia religiosa, la lotta al crimine.
Ma fu con i Greci, e soprattutto con i Romani che la tortura prese piede: non a caso la parola tortura deriva dal latino torquere (torcere il corpo). Inizialmente applicata agli schiavi (per i liberi la credibilità era convalidata dal giuramento) poi si estese con l’assolutismo imperiale: fu usata sui rei di lesa maestà, sui maghi e sui bugiardi.
La tortura diventò uno strumento giudiziario perfettamente legale: la confessione era indispensabile, nel diritto romano, per formulare una condanna. La flagellazione, con la frusta formata da lunghe cinghie di pel di bue che tagliavano come un coltello, era la più utilizzata. Ma vi erano anche altri metodi: gli schiavi che avevano tentato di fuggire erano marchiati a fuoco sulla fronte; sotto l’imperatore Costantino allo schiavo colpevole di aver sedotto un uomo o una donna liberi veniva versato piombo fuso in gola. La stessa crocifissione di Gesù (cruciare significava “tormentare”) era uno dei più terribili supplizi riservati ai malfattori.
A dispetto del loro nome, i barbari non praticavano torture. Avevano però un modo cruento per provare la colpevolezza di un accusato, l’ordalia: in caso di dubbio, solo chi riusciva a tenere nel palmo della mano un ferro rovente (celebre il film “Magnificat” del 1993 di Pupi Avati) o a immergere il braccio in un paiolo di acqua bollente, dimostrava la propria innocenza.
Quella del carnefice era una professione riconosciuta.
La rinascita del diritto romano, alla fine del XII secolo, riportò in auge la tortura come strumento giudiziario (sia punitivo, sia per ottenere confessioni).
Ma nel Medioevo alla tortura si ricorreva solo in casi eccezionali: spesso era sufficiente la sola minaccia del supplizio; in ogni caso i manuali dell’epoca raccomandavano che venisse fatta in maniera limitata, senza menomare la vittima in modo permanente, e che ogni sessione di tortura non dovesse durare più di 10 minuti, e non solo nei riguardi degli eretici.
Alla fine, se l’eretico confessava, doveva pentirsi davanti alla comunità con un “atto di fede” (auto da fé, in portoghese) indossando un saio nero con un alto copricapo. In caso contrario, c’era il carcere a vita o il rogo, per gli eretici recidivi o gravi: si bruciava il corpo della vittima affinché non potesse più risorgere dopo il Giudizio universale.
La pratica ufficiale della tortura continuò a lungo.
L’Inquisizione romana, tra il 1542 e il 1761 mandò al rogo 97 persone, fra cui il filosofo Giordano Bruno che non volle rinnegare le proprie idee; Galileo Galilei invece si salvò perché’ abiurò.
Il quadro culturale iniziò a cambiare con l’Illuminismo. Cesare Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene (1764) condannò la tortura come prassi inutilmente crudele: “Se un delitto è certo, inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi torturare un innocente perché tale è secondo le leggi un uomo i cui delitti non sono provati”.
Il primo Paese a ripudiare la tortura fu la Prussia nel 1740; alla fine del secolo la Rivoluzione francese ribadì i diritti dell’uomo anche se sospetto criminale. Ma la “ragion di Stato” prevalse anche sull’egualitarismo: nel 1800 la polizia francese cominciò a usare, in segreto, varie droghe negli interrogatori per far confessare i criminali.
Nella nascente Unione Sovietica (1919-1950), molti preti, compresi vescovi, furono bruciati vivi, a fuoco lento; agli ufficiali che si opponevano al regime venivano tagliati i testicoli, sfregiato il volto, cavati gli occhi e tagliata la lingua. Questa sorte toccò anche, durante la II guerra mondiale, a molti prigionieri di guerra tedeschi. Spesso nei gulag le vittime venivano trafitte con una baionetta nello stesso punto, lentamente, anche 15 o 20 volte. Ad alcune vittime veniva iniettata polvere di vetro nel retto.
Il secolo scorso è stato uno dei più bui della storia per il ricorso alla tortura. Nella I guerra mondiale (1914-1918) i turchi compirono atti efferati nei villaggi armeni: alle donne, dopo essere state violentate anche da 40 soldati, venivano strappate le sopracciglia e le unghie, tagliati i seni; agli uomini erano amputati i piedi e nei moncherini erano inseriti chiodi da ferratura da cavallo.
I nazisti, dal 1933 al 1945, trasformarono la tortura in un fatto di massa: deportarono nei campi di sterminio ebrei, zingari, omosessuali e dissidenti politici per sterminarli sistematicamente. Li picchiavano (anche fino a 800 volte) con pesanti bastoni, spegnevano le sigarette sui genitali, strappavano le unghie… I prigionieri erano usati anche come cavie umane per atroci esperimenti: riduzione di ossigeno e di pressione atmosferica, congelamento e raffreddamento prolungato, prove di sterilizzazione e castrazione. E prima ancora di distruggerne i corpi, i nazisti annientavano le anime dei prigionieri: sostituivano i loro nomi con numeri, li costringevano a lavori massacranti e inutili, li affamavano. Fino a cancellarne la dignità.
Ma la pace non ha cambiato le cose. Durante la guerra fredda gli Usa, ossessionati da spie e presunte tali, misero a punto nel 1963 un vero e proprio manuale sull’interrogatorio di controspionaggio, il “Kubark”, basato sul modello delle 3 D: dependency, debility, dread (dipendenza, debilitazione, terrore).
Per far confessare i prigionieri si manipolavano le funzioni vitali con privazioni sensoriali (niente luce o luce artificiale continua; nessun suono o suoni ossessivi); indebolimento fisico; droghe; tormenti vari (stare in piedi per ore o in posizioni scomode).
Il tutto con l’ulteriore vantaggio di non lasciare tracce riscontrabili a un esame medico.
Il manuale fece scuola in tutti i conflitti successivi: già nel 1973 Amnesty denunciava che la tortura era diventata “un fenomeno internazionale: esperti stranieri girano da un Paese all’altro, scuole di tortura illustrano e dimostrano i vari sistemi, e il moderno armamentario della tortura viene esportato da un Paese all’altro”.
La parola d’ordine? Non solo far soffrire, ma soprattutto annullare la volontà dei prigionieri.
Così la tortura è diventato un metodo globale. È stata usata nella guerra del Vietnam (anni ’60) dai militari Usa, nella Grecia dei Colonnelli (anni ’60), nella Gran Bretagna impegnata contro i separatisti dell’Ira (anni ’70) fino ad arrivare alla Cambogia: durante il regime di Pol Pot (1976- 1979), gli oppositori erano torturati con schegge di vetro o puntine di grammofono infilate sotto le unghie. Le vittime erano picchiate con il guanto di ferro, la cui superficie esterna era ricoperta di chiodi.
Un altro metodo era far stendere il prigioniero a terra con la faccia in su: 4 uomini gli tenevano ferme le spalle e la testa, e il collo gli veniva tirato, mentre un quinto uomo lo colpiva, sul collo, col calcio di una rivoltella o con una mazza fino a fargli uscire il sangue dalla bocca e dalle narici. Molti erano ustionati con acqua bollente o con candele accese.
Gli ultimi orrori, in ordine di tempo, sono le camere della tortura argentine (1976-1983) e cilene (1973-1990) nelle quali si utilizzava molto l’elettricità: gli aguzzini collegavano la batteria di un’auto ai genitali o ai capezzoli delle vittime, costrette a continue docce gelate e minacciati di morte. I cadaveri (o i prigionieri agonizzanti) venivano fatti sparire gettandoli nell’oceano dagli aerei.
Un episodio recente del quale è stata vittima Valdecir Bordignon, agricoltore brasiliano, nel 1999 dagli squadroni di polizia del Paranà, in Brasile, a caccia dei capi del movimento dei “Senza terra”.
“Mi hanno fatto inginocchiare, ha raccontato Bordignon, volevano che dicessi chi erano i leader. Quando ho risposto che non sapevo niente, dopo avermi ammanettato, hanno tentato di affogarmi, di strangolarmi, mi hanno dato calci nella pancia. Mi hanno tolto i vestiti e hanno minacciato di violentarmi. Poi mi hanno fatto inginocchiare davanti a un monte di sterco di vacca ancora caldo. Mi hanno avvicinato un coltello al collo e mi hanno fatto mangiare mezzo chilo di sterco”.
Oggi rivediamo scene simili in diversi Paesi del mondo, anche evoluti, ultimi esempi quelli della guerra Russia-Ucraina, da parte dei militari russi ai danni di militari o civili ucraini, ma sembra che siano avvenuti anche da parte di quelli Ucraini nelle zone che rivendicano il diritto di essere annessi alla Russia.
È impossibile quantificare le torture oggi, secondo Amnesty International siamo nell’ordine di migliaia di casi.
I più noti sono venuti a galla dall’inferno del carcere di Abu Ghraib (Iraq): scosse elettriche, pestaggi, umiliazioni sessuali… Per non parlare del carcere Usa a Guantanamo, dove 460 persone sono recluse senza processo né accuse in condizioni inumane, con suicidi sempre più frequenti.
Eppure questa è solo la punta di un iceberg: in 104 Paesi (su 190, circa 1 su 2) si tortura per estorcere confessioni, punire criminali, imporre la disciplina.
E la lotta contro il terrorismo non è la motivazione più frequente: in molti Stati (Cina, Russia, Paesi islamici) i diritti umani sono un optional, vengono costantemente calpestati.
Ma anche i Paesi democratici hanno un lato oscuro. Nel dossier di Amnesty figurano infatti molte nazioni europee, compresa l’Italia, dove l’episodio più grave riguarda 59 poliziotti accusati di violenze contro i manifestanti di Napoli (marzo 2001) e Genova (luglio 2001: quasi 100 feriti, di cui 3 in coma).
Ancora più preoccupanti le situazioni strutturali: le carceri e i “CPTA – Centro Permanente Temporanea e Assistenza per immigrati”.
Nelle prigioni italiane, oltre a episodi di maltrattamento da parte di agenti, il sovraffollamento e l’assistenza sanitaria inadeguata sono equiparati a torture, tanto da aver causato diversi suicidi. E nei CPTA, oltre a casi di abuso, si segnalano sovraffollamenti, scarsa igiene e assistenza sanitaria insufficiente, e in alcuni casi l’uso illegale di sedativi.
Un’aberrazione moderna? Tutt’altro. Un male necessario? La storia e la scienza dicono di no.
“Non c’è Paese al mondo, diceva lo scrittore Leonardo Sciascia negli anni ’80, che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui polizie, sotto polizie e cripto-polizie non la pratichino. Nei Paesi scarsamente sensibili al diritto, anche quando se ne proclamano antesignani e custodi, il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.
Che può essere sconfitto solo facendolo venire alla luce.
La tortura (e relativa esecuzione pubblica) di un leader protestante durante le guerre di religione in Francia nel ‘500. Università di Ginevra.
In un’illustrazione del ‘600 la rappresentazione di varie torture fatte agli schiavi italiani catturati dai saraceni: impalati, squartati da 2 navi, bruciati vivi, crocefissi, bruciati con candele, murati vivi, fatti a pezzi, trascinati da cavalli.
Un torturato appeso per le braccia e tormentato con tizzoni infuocati. Nell’antica Roma si usava la graticola: il prigioniero era steso su un letto di ferro sospeso su carboni ardenti.
La tortura della battitura dei piedi in voga in Europa nel Rinascimento.
Nel Rinascimento era anche comune la tortura della “corda”, cioè sollevare dal suolo il sospetto con una corda legata ai polsi all’indietro facendo poi precipitare il malcapitato da varie altezze, disarticolando gli arti superiori, oppure la “stanghetta”, con cui si comprimeva la caviglia fra due tasselli di metallo; “le cannette” inserite fra le dita delle mani e poi strette con cordicelle; le tenaglie roventi con le quali si strappavano le carni o l’acqua fatta ingerire, con la forza, a litri. Ma non tutti i tribunali applicavano questi sistemi in modo abituale, almeno fino al 1252, quando papa Innocenzo IV ne autorizzò ufficialmente l’uso nei processi contro gli eretici, se vi erano forti dubbi e contraddizioni sulle confessioni dell’imputato.
La “pera di ferro” è un meccanismo a vite che, introdotto in bocca, la si apriva fino a slogarla.
Ma a volte veniva utilizzata anche su altre parti del corpo.
Flagellazione in Corea agli inizi del 1900: spesso la tortura diventa un rituale pubblico per scoraggiare ogni trasgressione.
Un prigioniero iracheno minacciato da cani dell’esercito Usa nel carcere di Abu Ghraib nel 2005.
Nel carcere sono state perpetrate numerose torture.