Martedì 18 è stato celebrato il rito funebre per Franco Zeffirelli, celebre regista cinematografico italiano deceduto nella sua villa romana il 15 giugno scorso all’età di 96 anni.
Un altro grande connazionale che ha conquistato la statura di un gigante dell’arte cinematografica, e non solo, sulla scena mondiale, lasciando opere cinematografiche affascinanti che si ricordano e si rivedono sempre con piacere e che sono rimaste nella storia della cinematografia mondiale, la maggior parte delle quali prodotta con capitali, attori, e musicisti stranieri, il che denota la internazionalità del regista.
Lo ha riconosciuto anche il Cardinale di Firenze Giuseppe Betori il quale, nell’omelia tenuta durante il rito funebre celebrato nella cattedrale di Firenze, ha detto che “la vita che Franco Zeffirelli porta con sé davanti al Signore è quella di un uomo di cultura, di un artista. Nell’espressione culturale e artistica la Chiesa riconosce una modalità dell’alta vocazione dell’uomo alla trascendenza e quindi un’esperienza che si intreccia con il cammino della fede”. E ha concluso con un concetto fondamentale, e cioè che, attraverso l’arte, l’uomo viene chiamato a meditare su interrogativi più profondi che lo svincolano dalle miserie del consumismo e dell’utilitarismo: in pratica l’arte eleva l’uomo al di sopra delle miserie che la vita gli riserva.
Franco Zeffirelli era nato a Firenze il 12 febbraio 1923, a seguito di una relazione extra-matrimoniale che la madre, la giovane sarta Alaide Garosi Cipriani, aveva con il commerciante di tessuti Ottorino Corsi, originario di Vinci, sposato con un’altra donna; lei era sposata con un avvocato vecchio e malato, e divenne vedova durante la gravidanza mai nascosta.
Il padre naturale lo riconobbe dopo 19 anni, e Zeffirelli ebbe una infanzia tribolata anche per la morte prematura della madre, la quale, non potendolo registrare con il cognome dell’effettivo genitore, fu costretta a fargli assumere un cognome “inventato”; all’epoca era usanza attribuire ai bimbi nati fuori del matrimonio un cognome inventato, e quando il bimbo venne registrato era il giorno in cui il cognome doveva iniziare con la “Z” e la madre aveva scelto “Zeffiretti”, derivante da un’area dell’ “Idomeneo” di Mozart che alla giovane piaceva; ma l’impiegato dell’Anagrafe sbagliò e sostituì le due “tt” con due “ll” trasformandolo in Zeffirelli.
Tanto ricordava lo stesso regista in una delle memorie della sua vita, intensa e ricca di soddisfazioni e successi, per i numerosi film, le numerose regie di tragedie e di opere liriche, tutte di altissimo livello.
La madre morì quando era ancora bambino, e venne allevato da una zia e da una governante inglese che gli trasmisero l’amore per William Shakespeare, le cui opere lo seguirono per tutta la vita, e molte vennero messe in scena da lui.
Durante il regime nazi-fascista aveva combattuto con i partigiani italiani, e dopo la guerra studiò all’Accademia di Belle Arti e alla Facoltà di Architettura; nel 1946 si trasferì nella capitale entrando a far parte di un gruppo teatrale nel mentre proseguiva gli studi.
Era cattolico e dichiaratamente omosessuale, ma non apprezzava il “movimento gay” perché per Zeffirelli “l’omosessuale non è uno che sculetta e si trucca: è la Grecia, è Roma, è una virilità creativa”. Aveva avuto un lungo e travagliato rapporto con Luchino Visconti, dichiaratamente bisessuale,con il quale convisse per diversi anni a Roma nella villa di Luchino sulla Via Salaria.
Aveva adottato due figli, Pippo e Luciano, ai quali aveva dato subito il suo cognome, dei quali aveva detto: “Dei figli ‘veri’ non potrebbero essere migliori di loro”: li aveva amati da vero padre, riversando su di essi quell’amore che gli era mancato quando da piccolo.
Zeffirelli era politicamente anticomunista e di idee di centro-destra, era stato vicino a Silvio Berlusconi e venne eletto Senatore nelle file di Forza Italia.
Tornando alla sua vita artistica, l’incontro con Luchino Visconti fu determinante e la sua vita cambiò; ne divenne assistente e lavorò al suo fianco per un decennio, e quell’esperienza lo spinse a cimentarsi con la regia, dapprima teatrale, nella quale ha lasciato celebri messe in scena di “Romeo e Giulietta”, “Sabato, domenica e lunedì”, “Otello”, “La Signora delle camelie”, affidate ad interpreti internazionali come, ad esempio, Laurence Olivier, Susan Strasberg, Alec Mc-Cowen.
Franco Zeffirelli era un uomo di portata internazionale, e ha lavorato con tantissimi artisti di tutti i paesi: basta leggere una delle sue tante biografie per comprenderne le doti e la internazionalità che lo distinguevano, con una incredibile lista di produttori, sceneggiatori, attori, e musicisti, solo alcuni di essi nazionali.
Ha spaziato in tutti i campi dell’arte, teatro classico, opere liriche, opere televisive, opere cinematografiche, tutte di grande intensità.
Zeffirelli era convinto che qualsiasi spettacolo debba tendere alla perfezione figurativa e stilistica, ma senza cadere nell’estetismo fine a se stesso. Questo è uno dei motivi per i quali è stato uno dei registi più ricercati a livello internazionale, ed ha diretto e lavorato con artisti eccelsi in tutti i campi, dalla lirica (Maria Callas, Placido Domingo, Luciano Pavarotti, Leontyn Price, Carlo Bergonzi, Fiorella Cossotto, Tito Gobbi, Franco Corelli, Mirella Freni), alla musica (Leonard Bernstein, Herbert Von-Karajan, Riccardo Muti), per citare solo alcuni.
Non parliamo degli attori delle sue opere teatrali e cinematografiche: Laurence Olivier, Alec Guiness, Richard Burton, Rod Steiger, Peter Ustinov, Paolo Stoppa, Giorgio Albertazzi, Giancarlo Giannini, John Gielgud, Mel Gibson, Anna Magnani, Rina Morelli, Joan Plowright, Ann Bancroft, Valentina Cortese, Sarà Ferrati, Monica Vitti, Vanessa Redgrave, Maggie Smith, Cher, Judi Dench, Faye Dunaway e molti altri, l’Olimpo degli interpreti teatrali e cinematografici.
I maggiori teatri del mondo hanno messo in scena le sue opere, dal Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New York, Al Bolshoi di Mosca, al National Theatre di Tokyo e, ovviamente, in tutti i nostri grandi Teatri e Arene, tra le quali quella di Verona.
Non si contano le opere cinematografiche, nelle quali talvolta ha ripetuto, ovviamente con tecnica diversa, qualcuna messa in scena sui palchi teatrali, ma anche tante altre tratte dalla letteratura classica, o dai Vangeli, o dalla vita dei Santi. Come non ricordare, ad esempio, capolavori come “La bisbetica domata”, “Romeo e Giulietta”, “Fratello Sole e Sorella Luna”, “Gesù di Nazareth”, “Il campione”, “Storia di una capinera”.
Non c’è stato premio, nazionale o internazionale, che non abbia vinto o per il quale non abbia ricevuto candidature o “nomination”.
Personalmente mi sono rimaste impresse due opere cinematografiche: la prima è “Fratello Sole Sorella Luna”, del 1972 dedicata a San Francesco e Santa Chiara, film affascinante anche per la celebre colonna sonora di Riz Ortolani, dedicato alla “pazzia” del Giullare di Dio, interpretato tra gli altri da Graham Faulkner (Francesco), Judi Bowker (Chiara), Valentina Cortese (Donna Pica) con una breve ma intensa comparsa di Alec Guiness (Papa Innocenzo III che approvò la regola francescana).
La seconda è “Il campione – The Champ” del 1979, una struggente storia dell’amore tra il papà stalliere, ex pugile (Jon Voight), e il suo figlioletto T.J. (Ricky Schroder) che gli è stato affidato dopo la separazione dalla moglie (Faye Dunaway); un bimbo che stravede per il papà, il suo eroe, dal quale non vorrebbe mai separarsi; ma purtroppo durante un ultimo match di boxe il papà perde la vita per una emorragia cerebrale; il distacco tra il padre morente e il piccolo disperato è una delle scene più toccanti della filmografia di tutti i tempi, una sequenza struggente, degna del genio del grandissimo autore appena scomparso, che riuscì a rendere memorabile il dolore di un piccolo attore.
20.06.2019 – Una confessione di Zeffirelli.
Zeffirelli: la mia storia vera. Eccomi, son figlio di NN (di Franco Zeffirelli)
Sua madre aveva già tre figli, era sposata e contro il parere di tutti non volle abortire. Ma non potè riconoscerlo. Oggi svela questo particolare.
La mia vita è un premio; una madre che genera una vita è una donna premiata qualunque sia la sua situazione, qualunque siano i conti da pagare, qualunque siano i suoi problemi emozionali: ha il marito, non ha il marito, ha quello che la ricatta, quello che l’ha abbandonata. Il privilegio di portare la vita è un privilegio che gli uomini non hanno: noi siamo inferiori alle donne per questo. Il miracolo di sentir germogliare nel proprio ventre una nuova vita, il vederla sbocciare e vederla venir su rende voi donne più forti. Anche se alla fine i figli vi deludono, gli anni della creazione della vita nessuno ve li toglierà mai e in qualunque momento della vostra esistenza, quando la pena del mondo, l’abbandono degli affetti vi cadrà sulle spalle, ripercorrerete certamente col pensiero, col cuore quei meravigliosi mesi in cui avete creato una vita. Che poi quello sia divenuto un assassino, un papa, non importa. Ed è strano che sia io a dire queste cose, io che non sono né padre né madre né niente: sono solo figlio. Di più, sono un aborto mancato. Avrei dovuto essere abortito perché nascevo da due persone che erano entrambe sposate: lui aveva una famiglia bella e pronta, lei aveva tre figli ed erano tutti e due al tramonto dell’età delle frizzole. E invece si innamorarono pazzamente e mia madre rimase incinta. Tutti naturalmente le consigliarono di abortire. Il marito era moribondo, quindi non c’era neppure la possibilità di nascondere la gravidanza illegittima. Mio padre da buon galletto andava dicendo in giro che questo figlio era suo, però non faceva niente. Ma la gravidanza andò ugualmente avanti. La mia nonna stessa me lo confessò e mi chiese scusa; disse «Io ero la prima feroce nemica di questa gravidanza». E io invece nacqui contro il parere di tutti, perché mia madre ripugnava il pensiero di uccidermi: «Morirei di rimorso, nel pensiero di aver avuto tre figli e di aver distrutto un’altra vita». Molti dei miei avversari invece dicono: «Magari ti avesse fatto fuori». È l’odio delle persone, mentre io vorrei conoscere solo l’amore, perché sono stato amato nel ventre di mia madre, ho assorbito tanto di quell’amore, l’ho sentito, mi è entrato addosso. Mia madre l’ho persa che avevo sette anni, però sono rimasto impregnato del suo amore. Quando qualcuno ti ha amato veramente tanto e tu l’hai amato, questo amore, questa fiammella, questa fiaccola non si spegne mai, ti è sempre accanto. Siamo fatti di spirito, chi ci crede; io ci credo profondamente perché la vita mi ha dato continue verifiche di non essere un ammasso di cellule ma di essere un corpo che alloggia temporaneamente uno spirito che è la frazione del grande Creatore, di Dio a cui torneremo. Questa è la mia concezione: non me la sgangherate perché sto benissimo così, dormo sonni tranquilli, sono arrivato a settant’anni e voglio arrivare tranquillo al mio ultimo passo. Forse interessa un piccolo episodietto della mia vita. Calza a pennello proprio in seguito alla mia storia. Quella di un bastardino. Infatti, io non avevo il nome né di mia madre né di mio padre. Mia madre inventò questo nome Zeffirelli perché, secondo un’antica tradizione dell’ospedale degli Innocenti di Firenze che si tramanda dai tempi di Lorenzo il Magnifico, ogni giorno della settimana corrispondeva ad una lettera. Il giorno che nacqui io toccava alla Z e mia madre, che oltre ad essere una grande sarta era musicista, pianista, un’appassionata di Mozart, con tanto di farfalle e zeffiretti, quando le proposero la Z come iniziale, all’impiegato comunale disse, appunto Franco Zeffiretti. Quello non capì bene e, invece delle doppie “t” mise le doppie “l”: Franco Zeffirelli. Sono sicuro di essere l’unico con questo nome al mondo, però più tardi, divenuto grandicello, ero soltanto figlio di NN. A scuola tutti sapevano che il mio babbo si chiamava NN e mia mamma si chiamava NN. Quindi era tutto uno sfottò, anche se innocente perché veniva da bambini che non sanno. Un giorno ci fu una rissa nel convento di San Marco dove io frequentavo l’Azione Cattolica e dove viveva una persona molto importante, molto curiosa, che ogni tanto arrivava con i suoi libri e i suoi occhialoni. Era Giorgio La Pira. Lui insegnava storia del diritto romano e viveva lì come un frate laico, ma stava molto con noi, ci guardava e ogni tanto interveniva dicendo: «La Madonna. Quando avete un problema c’è sempre la Madonna, la Madonna! Salva tutto la Madonna». Quel giorno ci vide picchiarci e chiese che stava succedendo: «Ha detto che mia mamma è una puttana», gli risposi. Lui disse al ragazzo con cui mi stavo picchiando: «Tu vai a casa, che se comincio a parlare io della tua mamma ne vengono fuori delle belle!. Poi mi prese, tutto scosso e incavolato, mi tirò su per quel bellissimo scalone che certamente conoscete, che va dal chiostro al primo ordine del convento, e in cima al quale c’è l’Annunciata di frate Angelico. Mi portò su di corsa proprio davanti a questo dipinto. «Lo sai cosa è questo?» mi chiese. «L’Annunciazione» risposi. «E sai cos’è l’Annunciazione?» «E beh, è venuto un angelo davanti alla Madonna e le ha detto che sarà madre di Gesù?» «Sì va ben, ma come?» «E la madre di Gesù?» feci io sempre più confuso. «Come sarebbe diventata la madre di Gesù?» A quel punto io mi impappinai definitivamente, perché sapevo come nascevano i figlioli? ma non volevo attribuirlo a Dio. Allora mi aiutò lui: «Perché lo Spirito divino è disceso nella carne, nel ventre di questa donna e si è incarnato. Hai capito? Quindi non vergognarti mai. La maternità è sempre santità. Qualunque cosa dicano di tua madre, tu la devi pensare sempre come una santa perché è come la Madonna, e quando avrai bisogno di qualcosa nella vita prega la Madonna e pregherai tua madre». E questa cosa da allora mi è rimasta addosso. È lo splendor veritatis, per riprendere le parole di Giovanni Paolo II. Da quel giorno il problema di mia madre, della sua moralità, del suo atteggiamento e amore verso di me non l’ho più avuto.