Contravvenendo al divieto che mi ero imposto di non guardare più la rete 1 della Tv di stato, ma avevo detto che ci sarebbero state delle eccezioni, domenica 21 ho visto il bel film di Mario Martone “Qui rido io”, interpretato da Toni Servillo circondato da una stuolo di attori partenopei, uno più bravo dell’altro.
Ovviamente nessuno al livello del poliedrico Servillo il quale, nei panni di Eduardo Scarpetta, domina la scena dalla prima all’ultima sequenza, senza stancare.
Pure questo film, uscito nelle sale nel settembre del 2021, mi ero perso, perché si era in piena pandemia, ma la Tv ha colmato un vuoto che sarebbe stato imperdonabile per un appassionato dei film di qualità, specialmente se partenopei.
Il film racconta uno scorcio di vita del grande attore, scrittore, e sceneggiatore napoletano, quell’Eduardo Scarpetta che ha sfornato una infinità di commedie e farse popolari, mandando in visibilio gli spettatori della sua epoca, ma anche di quelle successive.
Un uomo che ha mostrato la sua esuberanza non solo nel campo della commedia, ma anche in quello privato, mettendo al mondo, con compagne diverse, almeno nove figli, molti mai riconosciuti, come, ad esempio, i noti Eduardo, Titina e Peppino De Filippo.
“Qui Rido Io” è stato diretto da Mario Martone ed è ambientato all’inizio del XX secolo, nella Napoli della Belle Époque, dove brillavano i teatri e faceva capolino il cinematografo.
Il grande attore comico Eduardo Scarpetta dominava i botteghini, il suo successo lo aveva reso, oltre che noto, estremamente ricco.
Il titolo del film, “Qui Rido Io”, trae spunto dalla iscrizione che fregia una parete della sontuosa villa La Santarella che il danaroso Scarpetta aveva fatto edificare sulla collina napoletana del Vomero con i ricavati di una sua commedia.
In quella villa Scarpetta riceveva ed ospitava artisti, letterati e amici, e non badava a spese pur di dimostrare la sua munificenza.
Ma erano tutti comprimari, in realtà era sempre lui al centro della scena, la sua assenza, nella villa come sul palcoscenico, era ingombrante.
Nonostante le sue umili origini, si era affermato grazie alle sue commedie e alla maschera di Felice Sciosciammocca, che aveva surclassato Pulcinella nel cuore del pubblico napoletano.
Il teatro era la sua vita e tutto il suo complesso nucleo familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi, tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, ruotava intorno ad esso.
Una vita densa di successi e di gratificazioni, e Scarpetta si riteneva quasi immortale.
E nel momento culminante del successo, Scarpetta si concesse un azzardo pericoloso: decise di realizzare una parodia de “La figlia di Iorio”, una delle più note tragedie del più grande poeta italiano dell’epoca, Gabriele D’Annunzio.
La storiografia asserisce che Scarpetta si fosse premurato di informare Gabriele D’Annunzio che ne avrebbe voluto trarre una parodia dal titolo “Il figlio di Iorio” e sembra che il Vate non si fosse opposto, anzi sarebbe stato favorevole alla proposta, della quale avrebbe riso insieme a Scarpetta.
Ma la sera della prima rappresentazione teatrale si scatenò il caos: lo spettacolo venne interrotto da urla, fischi e insulti sollevati dai poeti e drammaturghi della nuova generazione, che gridarono allo scandalo, quasi certamente aizzati dagli amici di D’Annunzio che consideravano un sacrilegio l’opera comica di Scarpetta, il quale venne denunciato per plagio dallo stesso D’Annunzio, e iniziò così la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia.
Gli anni del processo furono estenuanti per Scarpetta e per tutta la famiglia, tanto che il delicato equilibrio che li teneva uniti sembrò sul punto di sgretolarsi.
Tutto nella vita di Scarpetta sembrò andare in frantumi, ma con il talento di un grande attore avrebbe saputo sfidare il destino che lo voleva perduto ed era certo che avrebbe vinto la sua ultima partita.
Infatti, nonostante l’ostracismo fatto da numerosi commediografi e drammaturghi napoletani, alcuni dei quali addirittura scrissero documenti molto critici nei confronti di Scarpetta, il giudizio promosso da D’Annunzio si ritorse contro di lui in quanto Scarpetta, grazie ad una memoria difensiva scritta dal filosofo Benedetto Croce, riuscì a ribaltare la situazione, dimostrando al tribunale, tra gli applausi scroscianti del pubblico, che la sua parodia non danneggiava l’opera del Vate, anzi la valorizzava, anche perché la parodia aveva una trama del tutto diversa da quella de “La figlia di Iorio”, e le due opere non erano affatto sovrapponibili.
L’autodifesa fatta da Scarpetta dinanzi ai giudici fu probabilmente una delle più esaltanti recitazioni dello Scarpetta attore, che non recitava una scena posticcia e inventata, ma una scena che lo vedeva direttamente interessato: era l’anno 1908, Scarpetta aveva 55 anni.
Ma l’iter giudiziario avevamo minato la sua creatività, e, sebbene il pubblico continuasse a seguirlo e ad applaudirlo, Scarpetta iniziò una fase calante della sua vita, artistica e affettiva.
Nel 1909 si ritirò dalle scene, nel 1920 scrisse un saggio su Raffaele Viviani, definito innovatore dell’arte teatrale.
Sarebbe morto nel 1925, a 72 anni, e anche la sua morte fu teatrale: una folla di estimatori gli rese omaggio, venne imbalsamato e deposto in una bara di cristallo.
Oggi riposa nella cappella delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani nell’antico Cimitero napoletano di Santa Maria del Pianto.
Qualche cenno recensivo.
“Qui rido io” racconta la figura di un divoratore, un predatore di donne, famiglia e palcoscenico, devoto al culto della risata e degli applausi, per lui fattore cruciale, il respiro che alimentava il suo successo e la sua felicità.
Martone ha diretto un’irresistibile commedia popolare, in cui il ridicolo è il rovescio del sublime, in grado di rappresentare brillantemente un’epoca di trapasso, con un attore in splendida forma, Toni Servillo, capace di passare da uno Scarpetta che recita a uno nella vita, poi al cinema.
Due tecniche diversissime, impossibili da mescolare come acqua e olio, ma che lui riesce a rendere un flusso continuo e indistinguibile.
Solo di una cosa Scarpetta non riesce a ridere, del tempo che passa.