scritto da Mariano Avagliano - 30 Luglio 2019 14:13

Questi Fantasmi in mezzo a noi

In una delle opere sue più visionarie e, al contempo, veggenti Edoardo, il Grande  Eduardo, racconta la storia di una coppia che nella Napoli del primo dopoguerra, fatta di speranze e illusioni collettive, si installa, che occasione, in un blasonatissimo Palazzo appartenuto a un importante, regia, famiglia di Spagna.

Tra equivoci e sotterfugi la Commedia fa emergere una domanda attuale pure al giorno d’oggi: “Quanti e quali sono i fantasmi con cui quotidianamente conviviamo?”.

Un fantasma, dalla cultura popolare di cui siamo intrisi, è un’entità senza corpo, un’anima dannata che non ha ancora trovato pace e che, pace all’anima soja, vaga con dispetto innanzi chi gli pare e piace. Come se volesse far scontare il suo vagare a tutti quelli che gli capitano sotto tiro.

Oltre ai castelli scozzesi, dove magari ce ne stanno veramente, ci sono “fantasmi” con cui conviviamo e che, addirittura, ci fabbrichiamo nella vita frenetica e distratta che conduciamo ogni giorno.

Si tratta delle tante incongruenze, incoerenze e cose che non ci piacciono e che, inconsciamente, prendono una forma che non riconosciamo e che, appunto, diventano fantasmi perché appaiano quando meno ce lo aspettiamo. Facendoci paura, mettendoci di cattivo umore, inguaindoci giornate che altrimenti scorrerebbero limpide come il Sole.

Tutti ce li hanno sti fantasmi. Nessuno è immune.

Si tratta, per esempio, di una storia finita male che continua a palesarsi in un ritorno che non è mai dato. E, infatti, i principali fantasmi sono proprio quelli che ci portiamo appresso chissà da dove e da quanto tempo e che, in un modo perverso e inspiegabile, si legano al mare di aspettative che avevamo verso quella o quell’altra persona.

Fanno, insomma parte di noi e non ci possiamo fare proprio niente. O meglio, qualcosa possiamo fare. Anzitutto potremmo avere l’onestà di riconoscere che ci stanno, che ce li abbiamo e che, a volte, condizionano il modo in cui pensiamo e facciamo quello che facciamo. A volte pensiamo con la testa di altre persone, di chi abbiamo lasciato o di chi ci ha lasciato appesi a un filo, delle relazioni non compiute o compiute male.

Nel suo libro anticipatore “Il volto del nemico”, uscito qualche anno fa, Roberto Toscano, intellettuale e diplomatico di carriera, parla del nemico immaginario che tutti quanti, dallo spazzino (tutto rispetto) all’amministratore delegato (tutto rispetto anche qui, ci fabbrichiamo e costruiamo come capro espiatorio rispetto a tutto quello che, a nostro avviso, non funziona nelle giornate che viviamo.

L’immigrato, il nullafacente, il dipendente pubblico, le partite iva, i giudici, insomma tutto quello su cui al momento fa comodo scaricare qualche cosa che non ci va a genio.

Il “nemico” e il “fantasma” d’altronde definiscono quello che siamo e quindi, poi – stringi stringi – ne abbiamo quasi bisogno. Anzitutto perché ci danno la grande chance di risolvere le tante dissonanze cognitive senza le quali la nostra esistenza non avrebbe fondamento razionale ma sarebbe un continui edificare su di una polverosa dimensione di assurdo.

Ma siccome non li riconosciamo, a volte succede che soverchiano e intaccano pure la parte di buone che faticosamente mettiamo da parte.

E allora l’unica cosa, di senso, da fare è come fa il Grande Eduardo, nella Commedia: bisogna riconoscerli, capire uno a uno chi sono e farli entrare, si, quando bussano. Ma solo come e quando vogliamo noi.

Non per spirito di carità ma perché sti fantasmi, queste incongruenze, questa massa di incompiuti, fanno, comunque e nel bene e nel male, la sostanza di quello che siamo.

E nel farli entrare, parlarci, di fronte a nu bbuon cafè, oppure come si fa quando si contratta nel mercato, bisogna fargli vedere quello che siamo oggi che con il passato e il resto dell’incompiuto ha poco o nulla a che vedere. E, forse, solo in questo momento le illusioni cadono e, forse, si schiantano.

Oppure, se li lasciamo andare, se lasciamo che entrano come e quando vogliono senza sbarrargli la strada, finisce sempre che, a lungo andare, pigliano il sopravvento.

E se succede stamm nguaiat perché si apre una dimensione, in cui continuiamo a girare tuorn tuorn senza trovare pace.

Alla ricerca, parafrasando Sartre (Jean Paul nun t’a piglia s’il te plait), insensata e inutile, in cui la corrispondenza con quello che siamo oggi non viene mai, mai, data.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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