“Non – ne – possiamo più; noi – odiamo – la paytivvù”. Nelle curve, specie nelle serie inferiori, è frequente sentire questo slogan. Gli ultras che lo scandiscono contestano il calcio poltrone e pop corn, ad uso e consumo delle strategie di marketing. Ai loro occhi è un calcio fraudolento, ladro dell’ultima fede che è loro restata, quella nei colori della propria città, scippatore cioè della propria identità. Una recente vicenda ce ne dà la rappresentazione.
Il primo agosto scorso, a seguito del fallimento del Football Club Bari 1908, il presidente del Calcio Napoli, Aurelio De Laurentis, si è aggiudicato all’asta la titolarità della nuova società sportiva pugliese, che è ripartita dalla serie D. In quei giorni si era nel pieno di uno scontro frontale tra il presidente e la tifoseria delle curve del San Paolo; scontro che periodicamente si ripropone, anche, ma non solo, per la tenacia con cui la società resiste alle pretese estorsive di parte della tifoseria. Agli occhi degli ultras la scelta del presidente di aggiudicarsi il titolo del Bari valeva come una confessione, davanti a Dio ed agli uomini, che a lui del Napoli e della città non gliene fregava niente. Per lui il calcio è business, punto. Nei giorni a seguire la città di Napoli fu sommersa da striscioni, da manichini minacciosi e sui social da satire ostili a DeLa.
Il presidente reagì in modo energico, apostrofò i tifosi delle curve come dei trogloditi, che non capiscono cos’è il calcio oggi. Rivendicò i milioni di tifosi del Napoli sparsi nel mondo, che vengono raggiunti solo dalle pay tv e che ai fini della salute finanziaria della società sono più rilevanti dei diecimila ragazzi delle curve. Infine, a conferma che a lui degli ultras delle curve poco importava, aumentò il costo dei biglietti del settore, portandolo a cifre per essi esorbitanti. Non senza mancare di alludere a ‘obliqui’ orientamenti dei loro leader quanto a relazioni con la criminalità; il che non è neanche del tutto infondato.
De Laurentis spesso accenna anche ad un suo progetto di abbandonare il San Paolo a favore di uno stadio nuovo fuori città, da non più di quarantamila posti; comodi, salottieri, col ristorante, il parco giochi dei bimbi, il centro commerciale, etc… In questo stadio i posti potrebbero costare un’iradiddio, salvo che quelli delle curve, in cui magari saranno addirittura regalati. I ragazzi delle curve serviranno infatti per fare coreografia, non ad altro.
Lo scontro tra i due modi di vivere il calcio è stridente: il presidente rivendica che i soldi li mette lui e non tollera intromissioni nei suoi progetti; gli ultras ribattono che il Napoli è dei tifosi, della loro storia e delle loro passioni, roba che non si compra. Come andrà a finire? Avremo alla fine due campionati, quello delle élite e quello del popolo?
Nelle ultime settimane, apparentemente, le cose si sono stemperate ed oggi, saggiamente, il Calcio Napoli mette in vendita le curve del San Paolo a prezzi stracciati. Ma l’episodio di fine estate ha fotografato plasticamente il conflitto sociale più vasto dei nostri giorni.
Da una parte il mondo della finanza che corre verso la globalizzazione, in cui le bandiere valgono solo per le fiction di evasione; dall’altra il vecchio mondo identitario, che non ci sta e resiste, spesso con rabbia. Per le élite del mondo globale il calcio è un veicolo di messaggi commerciali; per esse le partite devono svolgersi nelle ore, nei giorni e laddove è più utile ai fini del marketing. Si può anche giocare la finale di Coppa Italia a Pechino, cambia poco; i tifosi sono un’appendice scenografica. Il popolo dei tifosi è legato al proprio stadio, alle ritualità, alle tradizioni; per esso la partita è l’occasione per ritrovarsi, per rivendicare la propria appartenenza, per sentirsi comunità locale. Addirittura, a volte, nelle curve, a comando del leader ultras di turno, i tifosi girano le spalle al campo. L’importante non è lo svolgimento della partita, sono i valori identitari che quelle maglie sollecitano.
Nel calcio, tra le élite del mondo globale ed il popolo ogni tanto c’è tregua, non pace. Succede così anche in politica, nelle confessioni religiose, nel lavoro. È questo il mondo in cui viviamo.