Perché Sanremo è Sanremo?
Il Festival di Sanremo sta agli Italiani come la Festa di Monte Castello sta ai Cavesi
Calato il sipario dell’Ariston con la vittoria di Angelina Mango e alle sue spalle, Geolier ed Annalisa, non si spengono di certo i riflettori sul Festival. Da oggi e per i prossimi mesi, le radio trasmetteranno le canzoni, i protagonisti saranno al centro di ospitate un po’ ovunque, soprattutto il Festival sarà ancora sulla bocca e nei discorsi della gente finché ad un certo punto non si inizierà a pensare all’anno prossimo e così, ancora, al Festival.
“Esperire è il miglior modo per capire” una volta mi è stato detto. Ed in effetti l’esperto non è solo chi ha studiato molto in teoria ma chi ha praticato una esperienza. Ragionando per parallelismi, in termini matematici, il Festival di Sanremo sta agli Italiani come la Festa di Monte Castello sta ai Cavesi. C’è chi lo ama, chi lo aspetta un anno in intero e chi invece lo detesta, chi proprio non sopporta tutto l’interesse che ci gira intorno, la mancanza di alternative nei giorni del Festival (e della Festa) e neanche vuole sentire le canzoni. Tutti però, proprio tutti, non possono non essere consapevoli che, sì, la prima settimana di febbraio è quella del Festival, come l’ultima di giugno è quella della Festa di Monte Castello.
Da un punto di vista antropologico ma anche politico, Sanremo definisce l’appartenenza meglio di altri criteri. Per dirla in maniera un po’ forte, estrema probabilmente, ma chiara, più del suolo o del sangue è italiano chi ama (o odia) il Festival di Sanremo. Insomma chi, volente o nolente, è influenzato dal Festival. Come direbbe Michela Murgia, “laddove l’identità sorge per distinguere, l’appartenenza è invece uno strumento costruttivo che integra le fratture e permette di riconsiderare le differenze reciproche come un valore collettivo”. È proprio in questo contesto che Ghali canta, nella serata delle cover, “Quando mi dicono “A casa”, rispondo “Sono già qua” prima di intonare “L’Italiano” di Cotugno. È questo sentimento di appartenenza che fa riconoscere come italiani finalmente i giovani di seconda generazione e che si ritrovano nel nazional-popolare Festival degli italiani.
Ben venga allora che Teresa Mannino salga sul palco portando un testo che parla di ecologia, patriarcato, antispecismo e che, senza nominare neanche queste categorie, vada dritto al sodo delle questioni. Ma ben venga anche Lorella Cuccarini che, con i suoi balli mozzafiato, ci riporta ad una Italia piena di promesse, quella degli anni Ottanta.
La kermesse sanremese è in grado di definire la società tempo per tempo: ne è passata di acqua sotto i ponti da quando nel 1964 una adolescente Gigliola Cinquetti con un abito accollato e a sotto al ginocchio cantava “Non ho l’età” al giorno d’oggi in cui Annalisa, elegantissima, può presentarsi sul palco cantando “Sinceramente”, un testo che parla di libertà e accettazione, in autoreggenti Dolce&Gabbana. L’Italia borghese e perbenista anni Sessanta si spoglia delle sue forme e dà vita ad una esplosione di entusiasmo della canzone vincitrice “La noia” in cui Angelina Mango canta che “se rischio di inciampare almeno fermo la noia”, il rischio più grande, quello di una vita non vissuta davvero, senza soffrire e quindi senza poter provare “gioie più grandi”.
E le polemiche? Il chiacchiericcio? I voti pilotati? In una Italia che non crede più a nulla e grida al complotto perché, paradossalmente, è l’unica cosa in cui credere, c’è da aspettarsi che un giovane votato dal 60% del pubblico da casa venga considerato aiutato da voti rubati o comprati. Per fortuna è solo una parte della popolazione. Lo dimostra proprio Geolier, il cui messaggio di rispetto sia nella sua canzone “I p’ me tu p’ te” sia nelle sue parole in conferenza ctampa, lungi dal rappresentare solo “Napoli e i napoletani”, come malignano gli invidiosi, fa di lui un vero esempio da seguire per i giovani d’oggi. Altro che ventenni senza valori e senza educazione.