scritto da Nino Maiorino - 07 Febbraio 2020 16:30

Parlare a vanvera

Mai come in questo periodo, e non mi riferisco solo agli ultimi anni, si è abusato tanto delle parole, sembra che la società sia, tra le tante altre cose negative, affetta anche da logorrea, prevalentemente verbale, ma non manca anche quella sui social.

A diffondere questa “bella” abitudine si sono messi d’impegno anche i nostri beneamati politici che fanno a gara a chi le spara più grosse, senza riserve.

Per giunta la logorroicità ha avuto, proprio grazie a internet, risvolti altamente negativi in quanto è sfociata in “fake”, falsità, bugie, bufale, spesso finalizzate a depistare, gettare fango sugli altri, carpire la buona fede delle masse per mettere in cattiva luce l’avversario, il nemico, e in politica se ne sta facendo un uso sconsiderato; oramai vi sono tecnici di questa nuova “arte”, stuoli di specialisti  del mestiere, molti dei quali lo fanno per guadagno, e non si pongono problemi etici o morali.

E men che mai questi problemi se li pongono i loro committenti, specialmente quelli che studiano come orientare le masse, in politica o in economia, di milioni di creduloni che puntualmente ci cascano e pendono dalle labbra di questa gente.

Si potrebbe anche dire “parlare a caso” o “parlare a casaccio”, quindi senza considerare ciò che si sta dicendo. Si dice anche parlare in aria, cioè senza fondamento, senza senso, senza riflettere.

Un altro modo di dire analogo potrebbe essere “dare fiato alla bocca”, che in napoletano viene anche tradotto “ ‘dice sul’ str… te”.

Mai come ora, quindi, la perifrasi “parlare a vanvera” è di moda.

La locuzione è divenuta tanto consueta che certamente pochi si sono posto il quesito di cosa sia la “vanvera”.

Per soddisfare la curiosità di uno dei miei cinque lettori sono andato a fare qualche ricerca ed ho scovato qualcosa di interessante, ameno ma anche scurrile; ma i curiosi lettori sono persone di una certa età, e che non si scandalizzeranno più di tanto per qualche termine o immagine forzata.

La locuzione avverbiale “parlare a vanvera” comparve per la prima volta alla fine del Medioevo.

Nel 1565 lo storico fiorentino Benedetto Varchi in un suo testo spiegava il significato con l’azione di dire cose senza senso o senza fondamento.

Anche Francesco Serdonati, poligrafo toscano vissuto tra il XVI e il XVII secolo, alla lettera P dei suoi “Proverbi” scrive che “a vanvera” veniva già allora accoppiata al verbo “parlare”; insomma, anche allora la locuzione “parlare a vanvera” era divenuta molto comune.

L’Accademia della Crusca spiega che “vanvera” è un termine che non esiste come sostantivo, ma solo in quanto parte della locuzione “a vanvera”. Perciò si può legare di volta in volta ad altri verbi, in vari contesti.

Si può quindi cucinare a vanvera, pettinare o vestire a vanvera, studiare a vanvera, cicalare a vanvera, correre a vanvera, lavorare a vanvera; e a vanvera si può poetare o recitare. È possibile inoltre tacere o pensare a vanvera; e ancora vanverare o vanvereggiare.

Sono note varianti regionali, in particolare nel pisano e nel lucchese, dove si usano le espressioni “a cianfera” e “a bámbera”; quest’ultima è una locuzione di probabili origini spagnole, con la quale s’intendeva una perdita di tempo.

Oggi gli etimologisti sono più propensi a credere che “vanvera” sia una variante di “fanfera”, una parola di origine onomatopeica che significa “cosa da nulla” (fanf-fanf riproduce il suono di chi parla farfugliando, pertanto senza dire nulla di sensato). In origine vi sarebbe il suono fan-fan, tipico delle trombe militari.

E da ciò deriva Fanfarone, che si dice infatti di persona che si comporta da millantatore o spaccone.

Per quanto riguarda la parola “vanvera”, ci sono interpretazioni fantasiose, e anche colorite e volgari, e tra queste ultime viene associata alla “piritera”, oggetto simile all’antico “prallo”, molto in voga presso gli aristocratici veneziani e napoletani del XVII secolo.

La “vanvera”, “prallo” o “piritera” poteva essere da passeggio o da letto: la sua funzione era quella di risolvere i disturbi gastrointestinali dal punto di vista… sociale. Spieghiamo meglio il concetto definendo di seguito la funzione degli strumenti.

Il “prallo” è un oggetto antico a forma di uovo, di ceramica o di legno, dotato di due fori comunicanti e di una cannula, che durante i lunghi banchetti degli aristocratici veniva infilato nel pertugio anale al fine di attenuare l’effetto dei miasmi delle flatulenze. Al suo interno si ponevano delle erbe odorose e il gas espulso, nell’attraversare il “prallo”, provocava una curiosa nota musicale tipo trombetta o fischietto.

Ve ne erano anche da passeggio, costruiti in pelle.

Per tornare all’origine del discorso, considerato che la logorroicità sta diventando una specie di inquinamento, quanto meno uditivo, e altrettanto pericoloso di altri, in alcune occasioni fa invidiare quei monaci che osservano la rigida regola del silenzio, e vien da dire, anzi da gridare: “Per favore ‘stamoce zitti’ ”.

Classe 1941 – Diploma di Ragioniere e perito commerciale – Dirigente bancario – Appassionato di giornalismo fin dall’adolescenza, ha scritto per diverse testate locali, prima per il “Risorgimento Nocerino” fondato da Giovanni Zoppi, dove scrive ancora oggi, sia pure saltuariamente, e “Il Monitore” di Nocera Inferiore. Trasferitosi a Cava dopo il terremoto del 1980, ha collaborato per anni con “Il Castello” fondato dall’avv. Apicella, con “Confronto” fondato da Pasquale Petrillo e, da anni, con “Ulisse online”.

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