scritto da Mariano Avagliano - 28 Ottobre 2017 09:46

PAESE MIO Antonio Lambiase, il cavajuolo doc maître à penser della “sorchetta” romana

Distratti come siamo non ci facciamo caso, quasi mai. Capita, a volte, di realizzare incroci di luoghi, tempi e contenuti tanto vicini a noi da sembrare, così, quasi poco reali. Mi è successo qualche giorno fa.

In ufficio mi dicono: “tu sei di Cava no? Ho scoperto ieri sera che il Sorchettaro (per chi non sa che cosa sia ve lo spiego tra poco) è di Cava de’ Tirreni”. Frenetico, subito, chiedo all’onnisciente Google e trovo un nome, un indirizzo e un numero di telefono.

Il “Sorchettaro” a Roma è un’istituzione. Qualsiasi fuori sede, studente, professionista, pensatore, lo conosce perché quasi tutti da lui ci siamo fermati, per chiudere una grande notte di bagordi, a prenderci, estate o inverno che sia, la “Sorchetta”, dolce che celebra e vezzeggia l’accoglienza della sensualità femminile.

Il sorchettaro altri non è che Antonio Lambiase, cavajuolo doc che negli anni Sessanta si sposta da Cava a Roma per lavorare. Quella sua, come di tanti altri, è una storia di mestiere e passione ma la sua ha un qualcosa di particolare: la cazzimma cavese, gliela leggi paro paro negli occhi, che gli ha consentito, in alcuni casi, di convincere e addolcire, nel vero senso del termine, la dea fortuna. Appena ci incontriamo, dopo poche ore dalla scoperta, mi accoglie di gran sorriso, familiare accento “luciano” (il sorchettaro è di Santa Lucia) e, subito, mi fa accedere in quello che per ogni pasticciere del mondo è l’inaccessibile sancta santorum: il suo laboratorio. È lì, tra ciotole di cioccolata fondente e profumo di dolci in cottura, che nasce questa intervista.

Attorno ci sta grande fermento, inizia la Notte romana e, arrivano i primi clienti fan della sorchetta. Anche se, dice Antonio, non è come qualche anno fa. “Tutta colp ra cris”. È vero effettivamente. Mi ricordo, qualche anno fa, nel fine settimana, di notte da mezzanotte alle quattro (è aperto dalle 21.30 alle 6.00), manco si poteva entrare (stiamo praticamente alle pendici della solenne Porta Pia in Via Cernaia 47, in pieno centro) tanta era la fila.

Ci sediamo e subito si capisce: la storia di Antonio Lambiase è un racconto di uno che, concretamente, si è fatto da solo. Ha imparato il “mestiere” (non ridete ma è interessante che la parola deriva da “ministrum”, servitore), manualità e tradizioni tramandate da generazioni, a Cava. Originario di Santa Lucia forse, dentro, si porta operosità e tenacia dei “cordari”. Si sposta a Roma all’inizio degli anni sessanta, nella frenesia da consumo del “boom” e del grande dinamismo che in quegli anni elettrizzava tutto il Paese e Roma in primis insieme a Milano. Antonio lavora in diversi posti (da Piazza Bologna, vicino alla Sapienza, alla “pasticceria Horvath”, oggi non ci sta più, vicino a Piazza della Repubblica), si fa largo, si perfeziona e piano piano, grazie a quella cavese cazzima (l’ho detto prima e lo voglio ripetere) piano piano inizia a farsi conoscere, a far girare il nome per la Roma mondana.

In un certo senso, con racconti di vita, contribuisce a farne la storia. È famoso l’incrocio con il Divo: Andreotti si faceva fare un dolce particolare da lui e solo da lui. Ma quello che rimane di più impresso, che fa più effetto, è il racconto di lui che girava, poco prima di cena, i ristoranti più famosi lasciandogli, for free, i suoi dolci più riusciti da offrire alla clientela. Un’operazione encomiabile e vincente di self marketing (quasi da business school per capacità di scommessa e visione, anzi vision) che gli vale, di concreto, il successo.

La maggior parte di quei ristoranti lo chiama più volte per commissionargli lavoro e in pochi anni, così, si afferma tra i migliori pasticcieri di Roma. Negli anni novanta arriva l’intuizione: compra alcuni locali in via Cernaia e ci mette il proprio laboratorio. Ed è qui che diventa a tutti gli effetti “Il Sorchettaro”: una sera come per gioco, un gruppo di ragazze che abitavano nello stesso palazzo dove sta il laboratorio gli fanno “E quella che è? Sembra una sorchetta” nel modo tipico romano, dice Antonio, di usare un vezzeggiativo per indicare l’organo genitale femminile.

Raccoglie l’idea al volo e ne diventa il maître à penser: anzi s’inventa una variante con panna e Nutella (cd. “Sorchetta doppioschizzo”), oggi un must, il non plus ultra dello street food della notte romana. La Notte avanza, clienti arrivano, si fermano e vanno via, nella movida della capitale. Antonio parla con me, lavora imbastendo qualche sorchetta, e poi ritorna a parlare con me. Finiamo l’intervista e si rilassa ancora di più. Cominciamo, a cor a cor, a parlare di Cava e dei luoghi di quando era giovane, Santa Lucia con luoghi comuni e personaggi chiave (“Ninucc u spennafic”).

Quello che qualcuno un po’ di tempo fa ha chiamato Piccolo Mondo Antico prende forma. Anche per me. E succede, all’improvviso, che mi sento a casa. E’ un’intuizione fulminea: mi rendo conto che l’ambiente che ti circonda conta ma ciò che ti fa sentire a casa sono le persone che ti stanno attorno. Con modi di fare, di dire, di vivere, di risolvere problemi in cui, per come sei, ti riconosci. In tutto e per tutto.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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