«Se tutta la legislazione antisemita era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra; essa infatti non si fondava che sull’arbitrio più assoluto…». Più ancora, in quegli «anni tragici e grotteschi», la «Corte» guidata da Azzariti, che da oltre un decennio era l’uomo forte del ministero della Giustizia fascista (e le leggi razziali non poteva scriverle certo un maestro elementare come Mussolini), finì per diventare «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro. E ciò mentre il rigore della legge e delle innumerevoli disposizioni ad essa connesse si abbatteva sempre più pesante su quegli ebrei che non volevano o non potevano piegarsi alla sopraffazione e al ricatto».
E’ con queste parole dello storico Renzo De Felice che voglio ricordare che quest’anno compie 80 anni una delle peggiori nefandezze compiute dal regime fascista di Benito Mussolini, il quale, insieme ad Adolf Hitler, collaborò allo sterminio di circa 6.milioni (era stato programmato per 11.milioni) di “diversi”, ebrei, polacchi, rumeni, rei solo di non appartenere alla razza ariana vagheggiata come la razza “pura” per antonomasia.
E’ stato un vero e proprio abominio giuridico e morale, come ha scritto recentemente Viviana Kasam, giornalista e Presidente di BrainCircleItalia, associazione no-profit nata nel 2010 sotto l’egida del Premio Nobel Rita Levi Montalcini per divulgare la ricerca nelle neuroscienze e i più recenti studi sul cervello.
Già nel 1933 la Germania, appena Hitler conquistò il potere, aveva iniziato ad emanare norme discriminatorie contro gli ebrei e gli altri delle “razze inferiori”, non immediatamente condivise dall’Italia fascista che, tuttavia, non avrebbe potuto esimersi dal seguire lo scomodo alleato anche per la convinzione che effettivamente esistessero le “razze inferiori”.
Nell’anno 1938 vennero quindi emanate in Italia le leggi razziali fasciste, un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari) applicati in fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta, inizialmente dal Regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana.
E’ istruttivo andare a leggere il “Manifesto della difesa della razza”, pubblicato il 5 agosto 1938 (ma alcuni sostengono che la pubblicazione è del 15 luglio precedente) con la firma di 10 studiosi fascisti, tutti docenti universitari sul cui rigore scientifico e libertà di giudizio è lecito nutrire dubbi.
Secondo tale documento esistono le razze umane e il concetto di razza è puramente biologico (cosa che non era mai stata messa in dubbio), ma anche che vi sono “razze grandi e piccole”, che la razza italiana e la sua civiltà erano prevalentemente ariane (non si comprende da dove derivasse tale affermazione), e che era giunto il momento che anche gli italiani si proclamassero “francamente razzisti” (punto 7 del Manifesto); non tralasciando di affermare come fosse “necessario fare una distinzione netta fra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra” … essendo da “considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”; per aggiungere altresì che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto … e che anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome”.
I dieci docenti universitari firmatari di tali teorie furono Lino Businco, assistente alla cattedra di patologia generale all’Università di Roma; Lidio Cipriani, professore incaricato di antropologia all’Università di Firenze; Arturo Donaggio, direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della Società Italiana di Psichiatria; Leone Franzi, assistente nella Clinica Pediatrica dell’Università di Milano; Guido Landra, assistente alla cattedra di antropologia all’Università di Roma, ritenuto l’estensore materiale del manifesto della razza; Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università di Roma; Marcello Ricci, assistente alla cattedra di zoologia all’Università di Roma; Franco Savorgnan, professore ordinario di demografia all’Università di Roma, presidente dell’Istituto Centrale di Statistica; Sabato Visco, direttore dell’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma, direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche; Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma, ma tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.
I docenti universitari che, sulla base di quelle leggi, persero il posto furono circa trecento.
Il Manifesto fu adottato alla lettera e gettò le fondamenta della successiva legislazione razzista; furono emanati il Regio decreto legge del 5 settembre 1938, che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista», poi quello del 7 settembre, che elencava i «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri»; fece seguito, il 6 ottobre, una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo, che venne successivamente adottata come legge dello Stato sempre con un Regio decreto legge del 17 novembre 1938.
La legislazione antisemita
Vi furono anche altre limitazioni, come il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore; per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.
Furono molti i decreti che, tra l’estate e l’autunno del 1938, vennero emanati da Benito Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III, tutti tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta “questione ebraica”. L’insieme di questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l’intero corpus delle leggi razziali.
I giochi erano fatti, erano state fissate le regole per le successive violenze, di ogni genere, contro gli Ebrei e i diversi; il governo Mussolini varò anche la “normativa antiebraica sui beni e sul lavoro”, che portò alla spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia.
Ma, con la consueta ambiguità che distingue noi Italiani, vennero introdotti dei “correttivi”, vale a dire delle norme in base alle quali l’allora Ministro degli Interni, poteva, diciamo così, lavare l’onta dell’origine.
Infatti, la Legge 1024 del 13 luglio 1939 conferì al Ministro dell’Interno la facoltà «di dichiarare … la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile»; venne così conferito un vasto potere, ad una Commissione apposita, di formulare pareri motivati sulla base dei quali il Ministro avrebbe a sua volta emanato Decreti di dichiarazione della razza: sapendo come viene esercitato il potere in Italia, e ancor più come veniva esercitato all’epoca, si può facilmente comprendere come alle nefandezze derivanti da quelle leggi se ne aggiungessero altre individuali derivanti da comprensibili mercanteggiamenti.
Ma indipendentemente dalle ragioni di stato che obbligavano Mussolini a schierarsi al fianco di Hitler anche in questo campo, sembra che il Duce non avesse motivi personali per essere contro gli ebrei in quanto per anni aveva frequentato Margherita Sarfatti, di origini giudaiche, che era stata sua amante e consigliera, anche se condivideva gli stereotipi dell’epoca che vedevano gli Ebrei come esseri pericolosi, e, nello specifico, contrari alla ideologia fascista.
Tant’è che inizialmente da un lato aveva condannato ufficialmente le teorie hitleriane sulla razza, tollerando, però, gli attacchi contro gli ebrei che iniziavano a verificarsi anche in Italia, fomentati dal suo entourage.
Ma anche nell’entourage fascista vi erano opinioni a atteggiamenti differenti, pure se la maggioranza fu favorevole; Roberto Farinacci, ad esempio, Gerarca nonché fondatore e proprietario del giornale “Regime Fascista”, era uno degli intransigenti razzisti ed ebbe a scrivere: “Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono una infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nella scuola, non hanno svolto opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo che può suscitare qualche sospetto”. E poi l’affondo finale: “Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli Ebrei del mondo, che mirano a un solo scopo: al trionfo dell’internazionale ebraica?”.
Ma altri, come ad esempio Italo Balbo, si mostrarono più tiepidi e meno intransigenti, senza però incidere più di tanto sugli sviluppi delle nefandezze che da quelle leggi derivarono.
Ma, anche se la responsabilità di tutto ciò è di Mussolini e del suo Governo, non si può ignorare quella di chi tali leggi avallò e promulgò, e cioè il Re Vittorio Emanuele III che non ebbe il coraggio di opporsi né al fascismo, per inseguire il sogno di divenire Imperatore di un impero coloniale che il Duce gli aveva assicurato, e che alla luce dei fatti storici si dimostrò illusorio, né alle tragiche conseguenze che quel regime comportò.
Né può considerarsi per il Re una riabilitazione ciò che avvenne il 25 luglio 1943 allorquando, sommerso dai danni che Mussolini aveva fatto al Paese, e dopo che il 23 e 24 luglio il Gran Consiglio del Fascismo aveva votato con larga maggioranza la sfiducia a Benito Mussolini, Vittorio Emanuele III ne dispose l’arresto, relegandolo in una prigione sul Gran Sasso, e nominò capo del governo il Maresciallo Pietro Badoglio.
Ora, a distanza di ottant’anni da quei tragici eventi, sembra che gli stessi siano ricordati solo da pochi nostalgici, complici anche le Istituzioni che non danno più il doveroso ufficiale risalto a tutto ciò che portò al secondo conflitto mondiale al quale anche il Regime di Mussolini diede il suo contributo, alla popolazione oramai invecchiata e alle mancate conoscenze storiche delle nuove generazioni.
E sembra che un malinteso buonismo tenda a una specie di riabilitazione di chi quegli ingenti danni e lutti provocò, tant’è che anche recentemente, allorquando è stato autorizzato a metà dicembre 2017 dal Presidente della Repubblica il rientro, quasi alla chetichella, delle spoglie di Vittorio Emanuele III, qualcuno si è rizelato per non essere stato dato all’evento un adeguato rituale pubblico, dimenticando che, al di là della umana pietà dovuta a tutti i defunti, nessun tributo pubblico poteva essere dato a chi quasi un secolo fa con le sue azioni ha procurato ferite e lutti per i quali tanti cittadini italiani ancora oggi soffrono.