Moby Dick nell’intelligibilità spinoziana: l’ossessione verso l’ignoto sottoposta alla verità utile
Carattere fondamentale della ragione umana è la costante ricerca di confutare l’insolubile, il tentativo di denudare l’ignoto e mostrarlo nella sua piena essenza
Considerazioni sull’ossessione verso l’ignoto e la ricerca dello stesso, attraverso uno dei caposaldi della letteratura americana, “The Wale” di Herman Melville, e le riflessioni Spinoziane concernenti il concettò di verità
Carattere fondamentale della ragione umana è la costante ricerca di confutare l’insolubile, il tentativo di denudare l’ignoto e mostrarlo nella sua piena essenza. Ma nel nobile tentativo di ampliare le nostre conoscenze, molto spesso inciampiamo nella piaga cognitiva dell’ossessione per queste, ancor prima di constatare la possibilità di poterle effettivamente avvicinare. Uno degli esempi più rappresentativi di questa costante è, indubbiamente, il romanzo che ci apprestiamo ad analizzare con assoluto spirito critico.
La balena
“La Balena bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo” – traduzione di Cesare Pavese
“La balena” è un romanzo enciclopedico di Herman Melville, che trova la sua meritata fortuna solo dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1891, e vede la sua prima traduzione in italiano soltanto quarant’anni dopo, a cura di Cesare Pavese. La storia, raccontata da Ishmael, unico sopravvissuto del naufragio della baleniera Pequod, narra dell’angosciante conflitto tra Moby Dick, una cerea balena dalle dimensioni bibliche, e Achab, il capitano della baleniera, menomato da un precedente incontro con il pallido capodoglio.
L’intero romanzo prosegue nella sua lunghezza fino a giungere alla morte, certa, del capitano, e quella della sua nemesi, la quale non viene però ben chiarificata. Le due figure, chiaramente allegoriche, sono soggette a differenti interpretazioni, quanto valide quanto differenti, ma quella sulla quale ci soffermeremo in questa scrittura è senza dubbio quella che ritrae Achab, nella sua ossessione, e la balena, nella sua terribile fugacità, come l’uomo e l’ignoto.
La teoria della conoscenza in Spinoza
Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632, e attraverso la lettura dei suoi testi potremmo riscontrare differenti parallelismi con l’opera Melvilliana. Quanto ci interessa però, al fine dell’analisi, è una contrapposizione tra una sua specifica linea di pensiero e la effettiva validità della lacerante ossessione che ha trascinato Achab, appurato il significato che vogliamo dare al romanzo, verso quella che potremmo definire una morte, utilitaristicamente parlando, assolutamente sterile. Nella sua teoria della conoscenza il filosofo olandese, affiancando ad esse le umane esigenze dell’autoconservazione, pone in auge tre possibili livelli, quello immaginativo, quello reale, e quello intuitivo. Il primo livello è una forma di opinione attraverso la quale l’uomo forma delle date percezioni a partire da esperienze approssimative, ovvero nella sintesi ottenuta dalle sensazioni recepite tramite l’incontro, casuale, con oggetti esterni a noi. Volendo riassumere tale concetto potremmo assumere che la conoscenza sensibile è data dalle modifiche avvenute, su di noi, tramite l’oggetto preso in questione. Nel secondo livello l’esperienza conoscitiva è invece estesa alle cause dei fenomeni studiati, mentre nel terzo avviene, che accostato al primo livello ci fornisce le necessarie delucidazioni per poter affrontare la nostra analisi, la conoscenza delle cose sub specie aeternitatis, ovvero sotto l’aspetto dell’eternità. Attraverso il corretto procedimento di tale pensiero avviene l’individuazione della connessione che esiste fra le idee, riproducendo il nesso reale che lega le cose corrispondenti a quelle idee.
La verità, dunque, altro non è che la riconduzione di una singola idea all’ordine generale di cui fa parte. Quanto ne consegue è dunque la capacità di vedere ogni cosa come momento partecipante ad un qualcosa di più grande, ed è proprio questa la visione che Achab aveva, attraverso la sua ossessione, nei riguardi del cetaceo, rappresentativo dell’ignoto. Ma è davvero sufficiente e necessario avvalersi di tanta intensità nella ricerca di un qualcosa che assolutamente non conosciamo?
La verità utile
Ma come intendere, dunque, una completa intelligibilità del reale? Essa espone la verità stessa al rischio della propria dissoluzione all’interno di un ente, che riteniamo essere “la balena”, in cui tutte le idee sono vere. L’abbattimento di tale difficoltà porta ad ipotizzare la possibilità di una vera religione e di un possibile esempio di “verità utile”, uguale in tutte le sue parti e verosimilmente idonea ad ogni forma conoscitiva. Ma i termini per il raggiungimento di una tale visione sono chiari, l’assunzione di tutte queste forme conoscitive postulando a priori la possibilità di tale visione. Ed è qui che lo scontro tra il capitano della Pequod e della balena prende principalmente parte al nostro pensiero, l’ossessione verso una presumibile ma non certa soluzione, additando ad essa il limite del suo raggiungimento, non può assolutamente definirsi una ricerca feconda. L’ossessione dell’uomo per l’ignoto altro non è che un continuo avvicinarsi, tassello per tassello, ad una realtà non finita, l’illusione di poter governare con la ragione un qualcosa di cui non è neanche verificabile l’esistenza, o addirittura la possibilità. La morte del capitano Achab in nessun modo lo porta alla comprensione del suo presunto nemico, trasformando un moto di ricerca in una deleteria ossessione verso un qualcosa che, continuando a sfuggirgli, perde ormai il senso che gli era stato affibbiato, simbolo dell’impotenza dell’uomo di fronte alle infinite possibilità conoscitive, che ci porta a condannare, ripercorrendo l’inchiostro Dantesco che tanto negativamente giudicò lo stesso Odisseo, fautore degli stessi ideali, l’attitudine alla conoscenza del capitano, e dunque dell’uomo, non di arricchimento, ma nel suo senso più becero di sapienza “dovuta”, nella presunzione d’essere il fine d’ogni cosa, e non un mezzo.