L’imperituro Eros alla corte dei mortali: la fenomenologia dell’amore
‘’Transumanar significar per verba non si poria; peró l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba’’. Asceso infine al Paradiso, all’apice d’un percorso parallelo con Beatrice, dettato da distanze mai lontane e vicinanze mai vicine, Dante dedicò al suo sentire queste parole. Dovessi definire l’amore lo farei allo stesso modo: un qualcosa di indescrivibile con l’ausilio delle sole parole, che alle volte sono di troppo o come in questo caso troppo poche, riconoscibile solo attraverso l’esempio del nostro vivere. L’amore non è un qualcosa che ci viene insegnato, è un’esperienza che cerchiamo ma per la quale non siamo pronti, è un qualcosa che riconosciamo pur non avendolo conosciuto prima. L’amore non si crea, capita, e al contempo non capita, si crea. Poiché ogni ulteriore tentativo di definire tale sentimento sarebbe vano, rispetto a quelli che sono i miei mezzi almeno, tenterò invece di dedicare queste poche righe al come affrontiamo l’amore, così come un qualcuno che non sapendo dare un significato alla vita non mancherebbe comunque di viverla.
C’è chi direbbe che l’amore, nonostante la sua forma unitaria, si divida in differenti sue manifestazioni. Ma a differenziare l’amore, almeno io credo, non è l’amore nelle sue radici, ma la persona amata. Che non si tratti l’amore come tanti bicchieri da versare in ogni recipiente amato, ma come un unico innaffiatoio che versa e definisce tramite il suo sentire l’altro.
È opiniorecepta ormai che in Occidente siamo soliti trattare l’amore come un mezzo, in una sua definizione meccanica che pone le sue basi su una sorta di scambio equivalente: amore è dare e ricevere, amare ed essere amati.
Si considera l’amore in una ramificazione di valori: quello che si prova nei riguardi di un genitore, ben diverso da quello che si prova nei riguardi di un amico, ancora differente rispetto a quello che si dedica ad una persona con la quale si intraprende una relazione.
Ma come si può fare di un qualcosa che conosciamo così poco e che viviamo così tanto un così presuntuoso schema d’utilizzo? L’amore non può essere soggetto a misurazioni e diversificazioni, non è possibile definire tramite un preciso metro quanto si ami un qualcuno o quale sia il tipo di amore che si prova nei riguardi di una persona, etichettando così di fatto un rapporto tramite ben precise classificazioni sociali.
L’amore è un universale senso di riconoscenza verso la vita, che incide sui rapporti nella stessa misura tramite la quale incide sul nostro vivere. Non è un punto di forza dalla quale si fanno nascere vettori orientati verso una o più persone, ma una serie di infinite rette che ruotano attorno tutto ciò che siamo.
Chi ama e fa della sua vita pura dedizione amorosa, amerà tutti perché ogni cosa e degna dello stesso amore, diversificando tale amore non attraverso l’intensità con la quale questo è concesso, ma dall’incontro di questo con chi lo incontra.
A definire il mio amore per qualcuno non sono io, ma la persona da me amata nel modo in cui questa reagisce all’amore.
Non esisterà una storia amorosa uguale ad un’altra, perché ogni persona che in vita abbiamo amato era in qualche modo diversa, come l’acqua che cambia e adatta la sua forma in funzione del recipiente. Ma d’un amore così libero ed universale abbiamo paura, tutto ciò che per grandezza non possiamo contenere ci porta ad uno scarso tentativo di riduzione.
Vivere l’amore come un sentimento, ben consci che si tratti di molto di più, ci porta a scagionarci dal quel timore di non amare più attraverso gli altri ma attraverso noi stessi.
Se d’amore m’illumino per ogni luce che accendo, quando poi una di queste luci dovesse spegnersi chi mi indicherebbe la via per poter poi accendere le altre? Ma l’amore non pone di questi dubbi, né vive nella paura che possa mai terminare.
L’amore è attimo che incontra l’eterno, semplicemente perché sull’eterno non si interroga ma risponde invece tramite attimi che durano un’eternità. Se volessimo banalizzare l’amore in un concetto di potenziale felicità o infelicità, continuerei tale banalizzazione in questo modo: L’infelicità non fa paura, poiché in qualche modo sappiamo che prima o poi questa terminerà, la felicità è invece terrorizzante, proprio perché sappiamo che questa prima o poi finirà.
Ma se soffrire per amore è la conseguenza d’aver amato, come può questo essere un male e non glorificazione dell’amore stesso?
Amare non è chi viene amato, ma chi ama. Non si tratta di un sentimento da dedicare, ma di un sentimento conseguente alla presa coscienza che in questa vita tutto è degno d’essere amato, e che chiunque s’ami finirà per amare, poi smettere e poi amare ancora, in un ciclo infinito che inizia da noi, e finisce in noi.1