Il mondo in cui ogni giorno ci svegliamo e facciamo colazione è animato da un’immensa complessità. Inspiegabile e ingestibile per coloro i quali erano abituati al mondo di pochi anni fa. Ce ne rendiamo conto ogni giorno appena usciamo di casa. Dal flusso di informazioni da cui, volenti o no, veniamo sommersi senza avere tempo e spazio, mentale, per comprendere quello che succede. Ci sono trasformazioni che, in pochissimo tempo, hanno innescato cambiamenti radicali, a vari livelli, dall’economia, alla politica (boni, state boni wagliu’) fino al mondo del lavoro.
Molte delle professioni che si facevano pochi anni fa, per non parlare dei lavori dei nostri nonni che sono da altro pianeta, oggi sono scomparse o, nella migliore delle ipotesi, “culture artigiane” da recuperare e difendere da un processo che null’altro è se non estinzione. Semplicemente non sono più “utili” per come lo erano un tempo. Internet e il digitale (che poi è divertente sempre l’assonanza con la parola “dito”, come dire il mondo a portata di click, di ditata), ci hanno dotati di una velocità di scambio e creazione di informazioni e relazioni mai vista prima.
É cambiato il modo in cui funziona il mondo, e con esso gli strumenti e il modo con cui utilizzarli. E, di conseguenza, pure il modo in cui ci si forma per utilizzare, nel miglior modo possibile, questi strumenti.
Tuttavia, se tutto questo ha aperto le porte all’automazione, rendendo possibile realizzare alcuni lavori e servizi in maniera automatica avvalendoci dell’intelligenza artificiale delle macchine, dall’altra parte fa emergere un tratto interessante: il valore dell’individuo, delle sue relazioni e della sua capacità creativa con cui, dunque, pianificare e programmare anche le macchine.
Pochi anni fa, ad esempio, concetto chiave, per la creazione di sviluppo e dunque di occupazione, era quello di insistere sull’emersione del talento anche attraverso la dotazione di competenze altamente specifiche e qualificate. Se questo viene confermato dall’evidenza empirica, ovvero se è oggettivamente vero che non possiamo fare a meno di lavori altamente specializzati come ad esempio gli esperti di certificazioni alimentari o meglio i medici e gli infermieri specializzati, allo stesso tempo ci rendiamo conto, girando per aziende, istituzioni e organizzazioni non profit dell’imprescindibile valore della persona, del fattore umano e delle sue relazioni. Se sono i lavori specializzati a contribuire, in maniera forte, alla creazione di ricchezza, dall’altra parte, in questa fase storica in cui la rete ci mette a disposizione strumenti unici con cui maturare nuove competenze, skills per dirla con i turbo ottimisti d’azienda, assistiamo anche a un certo livellamento tra chi sa e chi sta iniziando a sapere. Soprattutto per alcune attività la competenza rimarrà sempre fattore chiave e di unico e innegabile valore però ciò che anche sta venendo fuori, progressivamente, è la differenza, tra le risorse umane, sul “saper essere”, inteso come quell’insieme di attitudini individuali, innate talvolta, che rendono una persona capace di gestire e costruire determinate relazioni basandosi su intuito ed empatia.
I venditori, ad esempio, saranno quelli che difficilmente potremo rimpiazzare con una macchina: potremo avere macchine simili agli umani, per modi di leggere comportamenti e, addirittura, sfumature della voce ma nessun soggetto, come l’essere umano, è in grado di capire, in maniera innata e quasi istantanea come comportarsi e, anzi, relazionarsi con la persona, altro essere umano, che ha di fronte.
Semplicemente perchè come esseri umani puntiamo all’autoconservazione – che è cosa ben diversa rispetto all’utilità e all’efficienza di un lavoro da svolgere – e significa che, banalmente, siamo mirati, naturalmente, a costruire relazioni capaci di farci divertire, stare bene, sentirci protetti e quindi più forti. Se vogliamo, nella stessa logica primitiva del caro Neandertal che per cacciare meglio, soprattutto per le prede di grosso taglio, e difendersi ha iniziato a vivere in gruppi.
Il saper essere è sempre, a parità di competenza, il dettaglio che fa la differenza ed è poi il motivo, semplice, per cui scegliamo di stare con un collega simpatico piuttosto che con uno semplicemente competente e poco socievole.
Sapere essere, saper leggere gli atteggiamenti dei nostri interlocutori, intuirne aspettative e paure – del tutto simili alle nostre – è la chiave di volta dello sviluppo delle professioni che verranno.
Alle nuove generazioni, quindi, oltre a fornire strumenti e metodi con cui usarli dovremo anche dire che il sapere esser, che si apprende in famiglia, in casa, a scuola, nel modo in cui si si rapporta agli altri, può, talvolta, forse, contare di più, in alcuni momenti, del saper fare.