Vivere, al nostro tempo, è un esercizio complesso. Il più complesso. Vi sono scelte sbagliate che potranno trasformarsi in rimpianti e, ugualmente, non scelte che allo stesso potranno avere conseguenze distruttive sulla dimensione individuale.
Allo stesso modo, difficile è gestire il fardello di complessità che abbiamo ereditato dal passato.
Il contesto esterno, inoltre, ha variabili e declinazioni quasi infinite in cui l’affermazione dell’essere sembra per forza esser dovuta da una coincidenza tra dimensione economica, proiezione esterna, soddisfacimento continuo del bisogno emergente.
Oggi, come forse in nessun altro tempo nel passato, l’Essere Umano, complice l’avanzamento della scienza e il trionfo dell’individualismo materiale su qualsiasi valore immateriale, sembrano aver generato un distaccamento tra l’essere, dotato di sentimenti e di una dimensione “altra” rispetto alla materia, e l’avanzamento della società.
Tutto questo, una sintesi perfetta del nostro tempo imperfetto, è “Le particelle elementari”, lavoro del 1998 di Michel Houellebecq che questo periodo di fine estate ci fa riscoprire.
Con le “particelle” Houellebecq si è accreditato tra i massimi personaggi e intellettuali per la sua capacità di leggere, con esattezza biochimica, il contesto sociale contemporaneo dell’uomo e della donna occidentali ed europei.
La storia racconta di due fratelli, vissuti lontani e distanti per anni e cresciuti rispettivamente da una nonna a da una vecchia zia, che all’improvviso, in un certo punto della loro vita si incontrano.
Entrambi vivono un’infanzia per niente facile caratterizzata dall’assenza della madre che li abbandona per vivere liberamente in varie comunità “hippie” (siamo tra gli anni Sessanta e la fine degli anni 90).
I due fratelli crescono separati e, ciascuno a modo suo, vivono in maniera travagliata e complicata il percorso di maturazione affettiva, sentimentale e sessuale.
Un aspetto che segnerà profondamente la loro condizione umana e psicologica degli anni avvenire: entrambi faranno fatica ad innamorarsi e quando avverrà (uno conoscerà una compagna in una comunità new age, un altro si metterà insieme a un’amica d’infanzia), la felicità, momento che non hanno conosciuto prima di quel momento, durerà molto poco.
Le due compagne scompariranno in poco tempo e in maniera del tutto imprevista.
Uno dei fratelli impazzisce e si auto-reclude in una clinica psichiatrica sedato fino all’assenza di qualsiasi desiderio materiale, sessuale e immateriale; un altro si immerge nel suo lavoro di ricercatore bio-chimico facendo carriera e non vedendo niente altro nel mondo esterno se non una semplice riproduzione di relazioni chimiche. Sarà questo personaggio che, Houellebecq nel libro farà riscoprire successivamente da un giovane intellettuale, anni dopo la sua scomparsa, il quale si farà promotore, a livello mondiale, di una corrente di pensiero per “l’uomo nuovo”, essere superiore che con la scienza è capace di far fronte alle sue malinconie e infelicità.
In questo passaggio, finale, c’è la grandezza dell’opera di Houellebecq che parla chiaro ai tempi che viviamo: una delle soluzioni, per uscire dall’angoscia del quotidiano, è immaginare un mondo superiore, “nuovo”, regalo della tecnica e del progresso, capace di proiettare l’essere umano fuori dalla sua dimensione di tristezza e di angoscia e di correggere tutte le complessità del passato.
Un mondo così tanto perfetto da far considerare gli uomini come delle divinità rispetto a quelli dell’epoca del racconto: in questo passaggio, Houellebecq, che conclude con lo sguardo di chi racconta una storia guardandola dal futuro, sembra metterci un po’ di nostalgia.
Quasi come per dire che è più reale e significante vivere affrontando le complessità del quotidiano piuttosto che galleggiare in un mondo in cui tutto è perfetto.