scritto da Nino Maiorino - 31 Agosto 2019 16:20

Laceno: Giovanni, Amore, Dolore

 

Agosto 2019. Pianoro del Lago Laceno. Ristorante-bar La Lucciola. Pomeriggio di una giornata ricca di vacanzieri irpini, e non solo, in cerca di refrigerio dalla calura afosa della pianura della quale qui sul Laceno non vi è traccia; anzi, calato il sole, subito si va in cerca del maglioncino per sopperire al quasi improvviso calo di temperatura.

Nel bel pianoro del Lago Laceno non sono molte le alternative per vincere la noia di una zona montana, isolata dai luoghi affollati delle circostanti contrade più a valle.

Una noia rigenerante certamente gradita da chi va in cerca di pace che i luoghi affollati non riescono più a darti, quella pace fatta tra l’altro di silenzio che ti consente di stare con te stesso, di riflettere sulla tua vita, sulla tua esistenza, abbozzare anche qualche bilancio del tuo passato, e magari fare qualche programma per il futuro.

Una pace scandita dai suoni della montagna, come quello cupo dei campanacci di pecore, capre e mucche, che diffonde la sua dolce e lunga musica in tutto il pianoro almeno due volte al giorno: all’alba quando le mandrie escono dagli ovili e dai recinti per recarsi nei prati a pascolare, e a sera quando rientrano.

Magari dimenticherai poi tutta quella pace allorquando rientrerai nella routine quotidiana della vita normale, ma probabilmente qualche cambiamento del tuo stile di vita potrai adottarlo. E se anche non sarà così, avrai vissuto un momento di arricchimento spirituale che tante volte ti aiuta a trovare la forza di andare avanti.

Comunque amo questo posto e, pure non essendo un abituale frequentatore, sono lieto di andarmi a rilassare e grato agli amici Giuseppe e Immacolata che mi spingono a vincere la pigrizia e ospitano me e mia moglie nella loro dimora, piccola ma curata e accogliente.

Il bar ristorante La Lucciola è uno dei pochi luoghi di aggregazione e incontro del pianoro del Lago Laceno, e per tale motivo nelle giornate estive diventa un punto di incontro abbastanza affollato.

Ed è stato proprio in occasione della recente vacanza che trae origine questo scritto e il suo titolo che ha ci ha visti protagonisti di uno sconvolgente incontro in un pomeriggio vacanziero presso La Lucciola, provocato da un ragazzo alto e magro più di un grissino che si aggirava tra I tavoli sistemati sull’area esterna del bar, trasportando una sedia di plastica azzurra come gli ombrelloni della Motta. Si avvicinava a tutti I tavoli chiedendo attenzione che nessuno gli prestava.

Era giovanissimo, purtroppo affetto da paraplegia, ma si muoveva senza grandi difficoltà, nonostante la menomazione della gamba destra che trascinava.

Si avvicinò anche al nostro tavolo ma non gli prestammo attenzione, ed egli si allontanò girovagando paziente fra gli altri tavoli; inutilmente e dopo poco si riavvicinò al nostro e non potemmo non chiedergli cosa desiderasse.

“Po.sso.se.de.re.acc.anto.a.voi” chiese con eloquio lento, strascicando le lettere e sillabe.

Presi alla sprovvista scattò in noi una reazione negativa e gli rispondemmo che stavamo parlando; il ragazzo si allontanò con volto inespressivo, e riprese a girovagare tra i tavoli con la sua sedia.

Poco dopo si ritrovò nuovamente davanti a noi e ripeté la richiesta di sedere con noi e nessuno di noi quattro si sentì di rifiutarla nuovamente.

Lentamente sistemò la sedia e lentamente si sedette, e ci guardava.

Quanti anni hai? gli chiedemmo e molto lentamente rispose “di.ci.a.nno.ve”.

E come ti chiami? ed egli ci rispose “G.io.va.nni”.

Avevamo appena mangiato un gelato e sul tavolo c’erano ancora le tracce, e gli chiedemmo se potevamo offrirglielo.

Con molta gentilezza rifiutò e noi di rimando gli chiedemmo: allora cosa vuoi?

A.moo.re” ci rispose con il suo strano modo di parlare strascicato, inespressivo.

Fu come una frustata in pieno viso, o un pugno nello stomaco che sciolse ogni residua resistenza o incertezza ed allentò i legacci del nostro cuore rendendoci affascinati e schiavi di quel ragazzo che con quel suo linguaggio lento e strascicato chiedeva solo “a.moo.re”.

Il passo verso la commozione fu brevissimo, e a tutti si riempirono gli occhi di lacrime, e a qualcuno di noi non solo gli occhi.

Giovanni ci osservava con dolcezza, e chiese ad una del nostro piccolo gruppetto di sedergli accanto, e appoggiò il suo viso, come se cercasse il conforto del contatto con una mamma, o una nonna, o una donna che gli trasmettesse amore, e passarono molti minuti nel mentre la mano gli accarezzava il capo, e anch’io mi spostai per carezzargli la testa, che Giovanni aveva sempre attaccato al viso della sua momentanea “mamma”, dagli occhi della quale, coperti da occhiali scuri, scorrevano lacrime. Prese anche la mia mano e se la poggiò sul capo, e pure io cominciai a carezzarlo con delicatezza, quasi timoroso di fargli male.

Tutti nel nostro gruppetto avevano gli occhi lucidi, e Giovanni lo vide, e staccando il suo viso dall’altro, lentamente prese un tovagliolino e a ciascuno, spostando con delicatezza gli occhiali, tentò di asciugarli.

Poi mi disse: “non.de.vi.ve.r.go.gna.r.ti.di.pi.a.nge.re” e poi aggiunse “se.i.un.ca.m.pi.o.ne”, e volle battere il cinque, come fanno oggi i ragazzi, con tutti noi.

Notammo che aveva al collo una strana cicatrice, evidente segno di una recente laringotracheotomia.

Non so dire quanto tempo sia durato questo momento di intenso legame emotivo che ci aveva completamente estraniati dal contesto degli altri avventori seduti ai numerosi tavoli intorno: allorquando ritornammo vigili, notammo che qualcuno di essi ci osservava meravigliato.

Quanto durò il momento magico, non so dirlo: il tempo si era come fermato, e nessuno di noi sembrava avesse intenzione di farlo ripartire, anzi…

Ma tutto inizia e finisce, la nostra vita è fatta di parentesi che si aprono e poi, purtroppo, si chiudono, nulla dura per sempre.

E anche quel momento ebbe un epilogo.

Si avvicinò al nostro tavolo una signora, alta, tutta vestita di grigio, col viso distaccato, che non ci degnò di uno sguardo, né di ringraziamento, né di fastidio, né di altro tipo: come se noi quattro non fossimo esistiti.

Scoprimmo poi che era la mamma, allorquando la donna in grigio chiamò il figlio: “Giovanni dobbiamo andare via, tuo padre ti sta aspettando, vedi, è già in macchina” e accennò ad un’auto scura al di là della siepe del bar, nella quale oltre ad un uomo c’era anche una bambina seduta sul sedile posteriore.

Pietro non sentì, o almeno questa fu la nostra percezione; ma la mamma insistette, e dopo un poco aggiunse “non far venire tuo padre, che sai come ti porta via”: non una minaccia, ma una esortazione fatta come voce inespressiva, distaccata, e senza alcuno sguardo verso di noi.

Il ragazzo si alzò, sul suo viso inespressivo sembrò comparire una lieve espressione di disappunto, e si avviò verso l’uscita, seguito dalla mamma in grigio; nessuno dei due ci salutò, né la mamma che per tutto il tempo non ci aveva rivolto uno sguardo, né Giovanni, evidentemente dispiaciuto di doverci lasciare.

Gli avevamo dato qualche attimo di quell’ “a.moo.re” che lui disperatamente cercava negli estranei, forse perché probabilmente non lo trovava nella sua famiglia.

Eravamo tristi, ci ritrovammo tristi per tutta la fine della giornata e anche il giorno successivo, quando tornammo al bar La Lucciola per chiedere qualche informazione.

Giovanni era conosciuto, era il figlio disabile di una famiglia di un comune della provincia di Avellino la quale, di tanto in tanto, raggiungeva al Laceno per fare una passeggiata e distrarsi dagli affanni quotidiani, ma nessuno seppe darci ulteriori notizie.

Certamente non eravamo stati noi i primi a dare a Giovanni quell’ “a.moo.re”, che tanto bramava, ma ci illudemmo di essere stati gli unici ad offrirgli ciò che probabilmente la sua famiglia non gli dava.

E ancora ci illudiamo.

Classe 1941 – Diploma di Ragioniere e perito commerciale – Dirigente bancario – Appassionato di giornalismo fin dall’adolescenza, ha scritto per diverse testate locali, prima per il “Risorgimento Nocerino” fondato da Giovanni Zoppi, dove scrive ancora oggi, sia pure saltuariamente, e “Il Monitore” di Nocera Inferiore. Trasferitosi a Cava dopo il terremoto del 1980, ha collaborato per anni con “Il Castello” fondato dall’avv. Apicella, con “Confronto” fondato da Pasquale Petrillo e, da anni, con “Ulisse online”.

Una risposta a “Laceno: Giovanni, Amore, Dolore”

  1. 321.08.2019 – By Nino Maiorino – A PROPOSITO DEL LACENO
    Fino a qualche anno fa I momenti di aggregazione si potevano vivere pure in inverno in quanto erano aperte e attive le piste dello sci e gli impianti di risalita, che erano una delle ricchezze del pianoro del Lago Laceno che offriva così possibilità di ospitalità dodici mesi all’anno.
    Purtroppo oggi non è più cosi perché da circa un anno le piste e gli impianti di risalita sono chiusi per contrasti tra il Comune di Bagnoli Irpino, del quale il Laceno fa parte, e la società che circa sessant’anni fa ebbe la concessione delle aree sulle quali realizzò le strutture e gli impianti, costruendo anche alcuni residence che vennero venduti agli amanti della montagna e crearono un indotto turistico notevole che proiettò il Laceno sullo scenario nazionale.
    Uno dei simboli di questa valorizzazione fu il “Laceno d’oro”, una rassegna cinematografica che si trascina stancamente fino ai nostri giorni senza che la grande stampa ne dia adeguate informazioni, ma che negli anni passati si confrontava con altre rassegne cinematografiche, tuttora vive e vitali; alla rassegna partecipavano registi del livello internazionali come Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, ecc. e attori internazionali come Liz Taylor, Richard Burton, Claudia Cardinale, e tanti altri.
    Sapere che queste tradizioni sono state distrutte per contrasti e diatribe legali e amministrative ti lascia con l’amaro in bocca e ti induce a interrogarti sulle nebulose prospettive future di questo paese.

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