scritto da Nino Maiorino - 31 Luglio 2021 17:05

La sindrome di Medea

La vulgata è portata, in genere, alla dietrologia, a vedere dietro ogni episodio sempre un complotto, una macchinazione, ha la tendenza ad assegnare ai fatti della vita resa pubblica cause diverse da quelle dichiarate o apparenti, ipotizzando spesso motivazioni segrete, con la pretesa di conoscere ciò che effettivamente «sta dietro» a ogni singolo evento, e nella maggior parte dei casi difende le proprie convinzioni anche con connoti polemici, in genere sui social.

E pure i giornali e i media in genere ci aggiungono del loro, spesso con continui richiami ai fatti accaduti e continue interpretazioni in contrasto tra loro, affidati, specialmente sulle trasmissioni televisive, a commentatori che sembrano tuttologi.

Motivo per il quale, allorquando -alla luce delle ricostruzioni scientifiche effettuate da chi è veramente abilitato a stabilire cosa sia accaduto, la Magistratura inquirente, che poi si trasforma in quella giudicante- in mancanza di colpevoli, le indagini vengono chiuse, la vulgata resta delusa e, per non accettare la verità emersa, prosegue con le più fantasiose ricostruzioni.

L’ultimo episodio, al quale si ispirano queste considerazioni, è la chiusura delle indagini sulla morte del piccolo Gioele Mondello e della mamma Viviana Parisi, che nel marzo dello scorso anno, furono vittime di un incidente d’auto in una galleria: la Opel Corsa guidata da Viviana, in auto col piccolo Gioele, andò a sbattere contro il guardrail e un furgone.

L’incidente avvenne il 3 agosto 2020, e dopo l’urto, nonostante il furgone si fosse fermato e gli occupanti fossero scesi per prestare soccorso, Viviana prese in braccio il piccolo Gioele e scomparve nella boscaglia dopo aver superato il guardrail.

I due corpi vennero trovati dopo alcuni giorni, prima quello della madre, sotto un traliccio dell’alta tensione: è risultato che Viviana fosse salita sul traliccio e si fosse buttata giù.

Dopo qualche giorno venne trovato anche il corpo del bambino, mutilato, si pensò subito che cani randagi ne avessero fatto scempio.

Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, Viviana dopo avere sbattuto con la sua Opel Corsa contro il guardrail e una macchina, si sarebbe accorta della morte sopraggiunta del bambino e in preda alla disperazione avrebbe preso il bimbo in braccio e sarebbe scappata.

Alla chiusura delle indagini, invece, sembra che il bambino non avesse avuto danni nell’impatto, ma che sia stata la stessa Viviana a soffocarlo prima di suicidarsi.

Il Procuratore capo del Tribunale di Patti ha scritto: «È possibile affermare, con assoluta certezza come nella vicenda in esame non sia configurabile alcuna responsabilità dolosa o colposa, diretta o indiretta, a carico di soggetti terzi.

L’intera vicenda, in realtà, è ascrivibile in modo esclusivo alle circostanze di tempo e di luogo, al comportamento ed alle condotte poste in essere da Viviana Parisi e al suo precario stato di salute, purtroppo non compreso sino in fondo, in primo luogo da parte dei suoi familiari più stretti».

Tutte le indagini tecniche svolte hanno permesso di accertare come Viviana, senza ombra di alcun dubbio, si sia volontariamente lanciata dal traliccio dell’alta tensione, con chiaro ed innegabile intento di suicidarsi.

Una domanda è legittima: perché?

La risposta sembra trovarsi nel dossier sanitario di Viviana, che soffriva di allucinazioni, di manie di persecuzione, era costantemente in cura con psicofarmaci, che spesso dimenticava di prendere e il marito era costretto a controllarla e a sollecitarne l’assunzione, talvolta invogliandola a farlo nell’interesse di Gioele.

Evidentemente a seguito dell’incidente, Viviana, sentendosene responsabile, col timore che il marito avesse potuto separarla dal piccolo, ha deciso il passo fatale.

Il periodo estivo non consente di vedere trasmissioni di approfondimento, che certamente riprenderanno a settembre, ma la ricostruzione e la conclusione alla quale sono giunti i Magistrati è pienamente credibile.

D’altronde non si vede come sia possibile meravigliarsi tanto per un matricidio, che giustamente scandalizza tantissimi, increduli che un a madre possa sopprimere il proprio figlio.

Ma ci si dimentica di tanti altri casi di infantidio a cominciare, per non andare tanto lontano, dal delitto di Cogne.

Le statistiche dicono che il 90% dei casi di omicidio di cui sono vittime i bambini sotto i sei anni avviene per mano della madre, per vendetta, depressione, rabbia o disperazione.

Come Medea, l’eroina del mito greco che ammazzò i figli per vendicarsi del marito, sono migliaia le donne che uccidono i loro bambini, spesso prima di togliersi a loro volta la vita.

Il più noto è il delitto di Cogne, Annamaria Franzoni ammazzò, con un oggetto mai ritrovato, piccolo Samuele Lorenzi di tre anni, dopo di che rimosse dalla memoria quel delitto, tant’è che si è sempre difesa sostenendo di non essere stata lei. I giudici non le hanno mai creduto, ed è stata condannata definitivamente, ha scontato la pena ed è pure stata scarcerata.

Meno noti ma non meno orrendi gli altri matricidi, come quello commesso da Veronica Panariello del piccolo Lorys Stival, commesso a Santa Croce Camerina  in provincia di Ragusa, che pure sconvolse profondamente l’opinione pubblica. Il corpo del piccolo venne ritrovato in un canalone a pochi passi dal Mulino Vecchio, a 4 chilometri dalla scuola “Falcone e Borsellino” che il bambino frequentava.

La madre ne denunciò la scomparsa alcune il 29 novembre 2014 : “Non ho trovato mio figlio all’uscita dalle lezioni, aiutatemi” aveva detto ai carabinieri della caserma di Santa Croce Camerina (Ragusa), dove aveva sporto denuncia di scomparsa. Dopo qualche giorno il cadavere del piccolo venne trovato in un canalone nei pressi del Mulino Vecchio, nell’estrema periferia di Santa Croce Camerina.

Un mese dopo la Panarello viene fermata con l’accusa di omicidio aggravato e occultamento di cadavere ed è stata infine condannata a 30 anni di reclusione.

Il 12 maggio 2002 Loretta Zen, una madre 31enne, uccise la figlioletta di 8 mesi mettendola nella lavatrice nella sua casa di Madonna dei Monti, in località Santa Caterina Valfurva, in Valtellina. La donna aprì lo sportello dell’elettrodomestico e sistemò il corpo della piccola nel cestello poi attivò il lavaggio. A fare la tragica scoperta fu il padre della bambina.

Il 4 aprile 2013 Francesca Sbano, 31 anni, avvelenò la figlia di tre anni dandole da bere del diserbante e poi si lanciò dal secondo piano della casa in via Monteverdi a Carovigno (Brindisi) dove viveva separata dal marito da due mesi. Lascia un biglietto rivolto alla famiglia: “Benedetta la porto via con me”. La figlia morirà poco dopo in ospedale.

L’8 settembre 2005 a Merano (Bolzano) Christine Rainer, 39 anni, uccise a coltellate il figlioletto di 4 anni. Lo sorprese mentre sta facendo colazione con pane e marmellata. Alcune ore dopo il delitto tentò il suicidio gettandosi da una finestra del secondo piano del commissariato di polizia dove gli investigatori la stavano interrogando.

Il 9 agosto 2011 scorso durante una gita in pedalò con la madre nelle acque della Feniglia, a Porto Ercole nell’Argentario (in provincia di Grosseto), Laura P. annegò il figlioletto di 16 mesi; venne indagato anche il padre, un noto commercialista della capitale, entrambi vennero arrestati e condannati, la madre per omicidio, il padre per concorso.

A Rovito, provincia di Cosenza, il 6 marzo 2013 Daniela Falcone, una donna di 43 anni sgozzò con le forbici, in alta montagna, il figlio di 11 anni, dopo averlo prelevato a scuola, poi tentò di suicidarsi senza riuscirsi.

In provincia di Lecco, il 18 maggio 2005, una madre di 29 anni, Mary Patrizio, uccise il figlio Mirko di 5 anni annegandolo nella vasca da bagno; poi agli inquirenti dichiarò che erano entrati in casa alcuni sconosciuti e il piccolo era scivolato in acqua mentre la madre tentava di difendersi. Dopo due settimane confessò il delitto.

La donna venne condannata e reclusa in una clinica psichiatrica, perché colpita da “depressione post-partum”.

Il 20 luglio 2009 a Parabiago (Mi) Marcella Sardeni, una impiegata provata da una grave depressione, uccise il figlioletto di 4 anni strangolandolo con un cavo per il cellulare. La donna, 36 anni, venne poi trovata a vegliare il figlio agonizzante dalla madre e dalla sorella.

E per finire il 7 luglio 2004, a Vieste (Fg), una madre di 33.anni, Giuseppina Di Bitonto, casalinga, uccise i due figli di 5 e 2 anni, una femminuccia e un maschietto, soffocandoli con il nastro adesivo e poi con un cuscino, e poi si suicidò nello stesso modo.

Aveva seri problemi col marito, che faceva l’idraulico a Peschici, e ha così aveva pensato di risolvere tutti i suoi problemi.

Non è per un mero esercizio di ricordare cose orrende che abbiamo riportato questi brutti casi di matricidio, ma solo per far comprendere come la società odierna, talvolta e causa delle sue contraddizioni, spinga le madri a sopprimere i loro figli e, spesso, se stesse.

Classe 1941 – Diploma di Ragioniere e perito commerciale – Dirigente bancario – Appassionato di giornalismo fin dall’adolescenza, ha scritto per diverse testate locali, prima per il “Risorgimento Nocerino” fondato da Giovanni Zoppi, dove scrive ancora oggi, sia pure saltuariamente, e “Il Monitore” di Nocera Inferiore. Trasferitosi a Cava dopo il terremoto del 1980, ha collaborato per anni con “Il Castello” fondato dall’avv. Apicella, con “Confronto” fondato da Pasquale Petrillo e, da anni, con “Ulisse online”.

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