La processione religiosa delle Paranze dei devoti alla Madonna dell’Arco
Qualche mese fa con l’amico Sossio Mormile decidemmo di andare a fotografare la processione religiosa delle Paranze dei devoti alla Madonna dell’Arco a Sant’Anastasia. Ne avevo sentito parlare, Sossio c’era stato la prima volta all’età di 15 anni con una delle sue prime analogiche e mi raccontava della devozione alla Madonna di tutti i devoti.
Ed ecco arrivare il Lunedì in Albis, tanto aspettato da tutti per le scampagnate, le gite fuori porta, per divertirsi e non pensare: un momento in cui staccare la spina dal trambusto lavorativo e scolastico.
Ed invece a pochi chilometri da casa nostra si vive la giornata non in forma di svago, ma di totale devozione.
Devozione alla Madonna, con un rito che si ripete dal 1450, quando in paese si svolgeva una festa.
Si racconta che due giovani giocavano a chi faceva andare più lontana la palla di legno colpendola con un maglio. Nel gioco, la boccia di uno dei due andò a colpire un albero di tiglio che sorgeva presso un’edicola votiva, facendogli perdere la partita. Il giocatore, accecato dall’ira, bestemmiando, scagliò la boccia contro la Madonna, colpendola alla guancia sinistra. Questa, cominciò a sanguinare. La gente, come riportato nei documenti del Santuario, si gettò sul sacrilego per linciarlo, quando si trovò a passare di lì il Conte di Sarno, Raimondo Orsini, Gran Giustiziere del Regno di Napoli, che fece liberare il malcapitato. Costatato quindi il miracolo, dopo un processo sommario, diede ordine di impiccare il giovane allo stesso albero di tiglio che aveva fermato la boccia. Dopo ventiquattr’ore l’albero seccò.
Subito diventò un pellegrinare e la devozione alla Signora delle Signore aumentò e divenne viscerale, tanto da portare i fedeli a costruire le Paranze (o barche) e stendardi portati in spalla per chilometri fino all’ingresso del santuario dove una volta riposte, i Fujenti entrano in chiesa inginocchiati o stesi al suolo per chiedere la grazia, per loro e per l’intera comunità.
Ho assistito a scene di pianto struggente, a mancamenti per stanchezza e per angoscia, ho letto negli occhi dei devoti le preghiere e le suppliche, abbracci per sostenersi. Abbracci di gioia. Abbracci di dolore.
In centinaia ripercorrono la navata del santuario in un ordine svizzero, ognuno con i suoi tempi, con la sua devozione.
Anticamente i portatori della Paranza, i Fujenti, percorrevano scalzi l’unica strada di accesso al santuario, battendo anche durante le soste i piedi scalzi al suolo ed inneggiando canti pagani alla loro Signora. Lo sforzo per raggiungere il santuario è tremendo, i fedeli portano stendardi e la pesante paranza per chilometri, tutti vestiti in bianco con una fascia azzurra, per simboleggiare la Vergine Maria.
L’attesa per l’ingresso al santuario può durare ore, ma non ho visto una lamentela. Durante le attese i Fujenti cercano di riposare, alcuni invocano canti e balli, con l’aiuto di mini bande musicali, ogni paranza ha la sua, e non importa se fa caldo o freddo, il pellegrinaggio deve andare avanti, si deve arrivare al santuario e sempre per devozione devono percorrere almeno l’ultimo tratto di strada correndo.
I più anziani impartiscono gli ordini e trasmettono ai più giovani il rigore per quel momento di quella funzione e non è difficile assistere a scene di epilessia o di svenimenti. I frati Domenicani sono oramai preparati e hanno organizzato un’imponente squadra di assistenza sanitaria, e mi hanno raccontato che la processione è quasi la stessa da cinque secoli. (servizio e foto di Aldo Fiorillo)