L’attuale emergenza legata al Coronavirus nella nostra città è sentita anche per tristi ricordi delle epidemie dei secoli scorsi, tra le quali quella della peste bubbonica che nel 1656 colpì Cava con particolare virulenza, e che per il numero dei deceduti non è paragonabile, fortunatamente, alla situazione attuale.
Ogni anno nel periodo estivo si celebra la Festa di Monte Castello o del Santissimo Sacramento, ormai nota in tutto il paese per la risonanza che ha avuto negli anni, e anche perché la celebrazione di tale festa, originariamente legata alla micidiale pestilenza che afflisse la città nel 1656, si è negli anni arricchita con altre celebrazioni che pure hanno fondamenti storici ma che, nel corso degli anni, hanno assunto dimensioni diverse rispetto alla realtà storica da cui derivano.
Partiamo, però, dalla Peste del 1656, anno in cui Cava fu devastata dal cruento morbo, che per mesi sottopose la popolazione a grandi sofferenze.
La tradizione vuole che il Parroco dell’epoca, Don Angelo Franco della Frazione della Santissima Annunziata, nell’autunno del 1656, e non nell’ottava della Solennità del Corpus Domini come qualcuno sostiene, organizzò una solenne processione, portando il Santissimo Sacramento fino alla Chiesetta all’interno del Castello di Sant’Adjutore, sulla collina che sovrasta la valle, dove, dopo una fervida cerimonia religiosa, venne invocata la benedizione di Dio su tutta la valle con l’ostensione dell’Ostia Consacrata ai quattro lati del Castello.
Sembra che da quel giorno la epidemia cominciò a regredire, ma avrebbe avuto termine solo nel dicembre successivo.
Dall’anno dopo, 1657, il popolo cavese annualmente ricorda l’evento e ringrazia il Signore Iddio, con solenni riti religiosi, per lo scampato pericolo.
Di questa vicenda, che abbiamo riassunto in poche righe, sono state scritte importanti pagine da storici ed eminenti personaggi cavesi, e periodicamente ne parlano anche personaggi di cultura che approfondiscono in continuazione gli avvenimenti passati.
Spulciando qualche ricostruzione storica sembra che l’epidemia fu tanto mortale da dimezzare la popolazione cavese. Il Vescovo, Mons. Lanfranchi, annotò nei registri della Diocesi che solo a Cava morirono 6.300 persone, oltre il 50 per cento della popolazione dell’epoca, tra cui 12 Notai, 12 Medici, 100 Sacerdoti, 40 Frati, 80 Chierici. Nella Chiesa di San Nicola di Bari in un solo giorno, il 24 giugno, vennero sepolte 22 persone.
Convenzionalmente la celebrazione viene fatta nel mese di giugno, per evitare le incertezze delle giornate autunnali e anche per far partecipare il maggior numero di turisti che negli anni hanno sempre di più affollato la città, tant’è che essa ha avuto tanti anni fa la facoltà di aprire l’Ufficio di Soggiorno e Turismo, ancora oggi attivo, proprio in virtù di ciò: erano gli anni in cui Cava veniva considerata “la piccola Svizzera” in una posizione strategica collinare che poteva soddisfare i turisti, anche stranieri, appassionati della montagna, e qualche gruppo ancora oggi si vede, ma anche quelli che volevano abbinare alla collina i bagni di mare, diventando così porta della Divina Costiera.
Nel corso degli anni la celebrazione estiva della terribile pestilenza si è man-mano arricchita di manifestazioni collaterali che pure ricordano avvenimenti storici quale, ad esempio, quello collegato alla pure famosissima vicenda della Pergamena Bianca, avvenimento che quest’anno compie 600 anni, legato alla vicenda dell’aiuto armato che i cittadini cavesi portarono al Re Ferdinando I d’Aragona le cui truppe, accerchiate da quelle dell’esercito di Carlo D’Angiò nella valle del Sarno, stavano per soccombere.
Il contrasto tra gli Aragonesi e gli Angioini derivava dalla pretesa di Carlo D’Angiò di vedersi riconosciuti dal Re Ferrante I D’Aragona indennizzi per danni subiti.
I Cavesi, fedeli sudditi di Ferrante, andarono in soccorso delle truppe assediate e consentirono agli Aragonesi di avere la meglio sulle altre; e il Re Ferrante, per ringraziare questo gesto, voleva compensare la città fedele, ma i notabili dell’epoca non si misero d’accordo e, pertanto, il Sindaco Onofrio Scannapieco ritirò dal Re una pergamena firmata e col sigillo reale sulla quale avrebbe potuto scrivere cosa la città desiderava in cambio; quel documento non fu mai riempito, e perciò è rimasto in bianco ed è conservato nel Palazzo di Città, dove è in bella mostra, nella sala di rappresentanza, anche il celebre quadro dipinto dal pittore salernitano Clemente Tafuri nel secolo scorso.
Anche questa storica vicenda è stata, nel tempo, molto amplificata dal punto di vista storico, giungendo a rappresentare i cavesi soccorritori come un piccolo esercito bene armato e addestrato, nel mentre riscontri storici ridimensionano l’accaduto che in realtà avrebbe visto poche diecine di contadini, armati alla meglio, che effettivamente corsero a Sarno in soccorso del Re Aragonese, che avrebbe beneficiato del loro aiuto principalmente dal punto di vista psicologico che avrebbe rincuorato le sue truppe, e che comunque gradì molto.
Ma negli anni le celebrazioni hanno subito folcloristici ampliamenti, diventando un arricchimento della commemorazione della storia della peste, tant’è che oggi la città, sull’abbinamento dei due eventi, inserendo anche i Trombonieri con i loro “tromboni”, archibugi che all’epoca avrebbero usato i soccorritori, e gli Sbandieratori, è riuscita a dare all’estate cavese un rilievo nazionale come ha dimostrato, anche negli ultimi anni, la presenza di numerosi turisti provenienti da tutt’Italia.
Ma nell’attuale frangente ci preme principalmente tornare alle origini di questo scritto, e cioè il ricordo della terribile epidemia del 1658 per nulla paragonabile, fortunatamente, a quella attuale.