La coscienza di Zeno attraverso Schopenhauer: la coscienza dei propri limiti non è sufficiente al cambiamento
Considerazioni sulla sfera della volontà e l’inettitudine del “non volere abbastanza”, attraverso il romanzo psicoanalitico di Svevo “La coscienza di Zeno” e i divisamenti Schopenhaueriani sul poter essere.
Il pensiero è in assoluto una leva di primo genere, ma in quanto tale si fa, a causa di un utilizzo improprio o troppo abbondante dello stesso, inesorabile morsa dell’individuo. Ognuno vive nel costante limbo dell’esser e del voler essere, e non sempre il conto che abbiamo di noi corrisponde all’effettiva realtà. Ma nella costante del volersi migliorare, indipendentemente dal punto di partenza, gioca un ruolo fondamentale la volontà, ente primo della realizzazione in ogni campo. Come pura volontà di potenza l’uomo ha l’onere di aspirare alla massima realizzazione d’ogni sua valenza, ma la pigrizia spesso si rende molto più forte ed opprimente dell’ambizione, la quale “passivamente” frena il più esangue con la sua attrazione, lenendo ogni forma di volontà, ed ogni capacità di fare.
La coscienza di Zeno
Nel 1923 a Bologna trova luogo la prima pubblicazione de “La coscienza di Zeno”, romanzo psicoanalitico di Italo Svevo, che potremmo molto scherzosamente definire autobiografico, che ha come topos narrativo la pubblicazione da parte del “Dottor.S”, a scopo vendicativo, alcune memorie, redatte in forma autobiografica di un suo paziente, Zeno Cosini, il quale si è sottratto alla cura che gli era stata prescritta. Gli appunti dell’ex-paziente costituiscono in effetti l’intero contenuto del libro.
L’intero romanzo dunque consiste, volendolo definire molto sommariamente, nell’accostamento dei tentativi di fuoriuscita dal suo stato di “minorità d’essere” da parte di Zeno alle analisi psichiche dello stesso, i quali spesso completamente fuori dal “reale” o assolutamente controproducenti.
La figura di Zeno però risulta molto ambigua, volendola analizzare attraverso una ben specifica domanda: Essere consapevole dei miei limiti mi rende superiore ad essi? In effetti il punto de quo è proprio questo, nonostante la sua “malattia”, la quale lo impossibilita dall’identificarsi con il mondo pragmatico che ognuno è tenuto a vivere, il protagonista ha ben presenti le sue imperfezioni, e proprio tramite questa coscienza di Zeno, vogliate perdonare il gioco di parole, si sente capace, e quasi in dovere, di poter cambiare le sue esperienze, facendo si che egli si ritenga superiore agli altri uomini, i quali invece, ignoranti dei loro limiti, restano come paralizzati in una condizione di immutabilità, negando ogni possibile miglioramento. Ora, per assurdo, il vero problema è presente proprio in questa presa di coscienza, tematica che a breve affronteremo.
La voluntas
Una delle più piacevoli intuizioni di Arthur Schopenhauer è, per quanto possa sembrare banale, l’attribuzione del corpo al soggetto cosciente di sé. Con quest’abile concezione il filosofo di Danzica apre la filosofia ad un nuovo modo intendere la “percezione” in filosofia, ovvero tramite il proprio corpo.
L’intuibilità e la banalità di questa scelta non vanno confuse con la classica concezione di sensi e d’esperienza, perché nasconde l’intento di definire finalmente l’uomo nel suo essere “volente”, un oggetto tra gli oggetti che diventa anche la sede di un senso interno che ci mostra immediatamente la nostra coincidenza con una forza, un impulso, che è la volontà.
In questa sede non è nostro interesse affrontare il sistema Schopenhaueriano che porta la volontà a diventare l’esperienza di sé stessi, e quindi l’esclusione delle forme a priori della conoscenza per giungere al noumeno, bensì il poter riprendere la tematica brevemente abbandonata che era nostro interesse trattare. Attraverso il corpo scopriamo che la realtà delle cose ci concerne, rendendoci conto d’essere al mondo come una sua parte, e nell’essere parte di esso cerchiamo e rifuggiamo determinate cose, siamo protesi al piacere e allontanati al dispiacere, e proprio queste propensioni ci permettono di squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé.
Infatti, ripiegandoci in noi stessi, scopriamo che la radice noumenica del nostro io è la stessa volontà: noi siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire. La vita non diventa a questo punto una scelta, o quantomeno ci dà solo l’impressione d’esserlo, la noia, il dolore, il mancato piacimento di quello che siamo e come siamo, altro non sono che realtà del tutto illusorie, che la volontà è capace di svelare. L’uomo sta alla vita come la vita sta all’uomo, e vive del desiderio anche nella sua assenza.
Il compiacimento dei propri limiti
Adesso contestualizziamo al punto topico della nostra breve trattazione quanto appena appreso sulla volontà, e torniamo sulla domanda precedentemente posta, per quanto riguarda la presa di coscienza dei propri limiti. L’attitudine umana della ricerca del più semplice e della pigrizia dell’agire è uno spettro che vive alle spalle d’ognuno, e la sola consapevolezza del proprio male è spesso arbitrariamente confusa con la cancellazione del male stesso. La capacità di poter leggere in se stessi, contornata dal coraggio di farlo, inciampa quasi sempre nel ritenere che essa sia sufficiente miglioramento di sé, instaurando nella propria mente una presunta superiorità, che altro non è che una vera inferiorità, di ritenere tale intuizione, quella del conoscere i propri limiti, la cancellazione degli stessi, o peggio, una loro accettazione.
La volontà di cambiare incontrando una mente “debole” diventa il cambiamento stesso, già raggiunto, o molto spesso si pone come un obbiettivo a lungo termine, ignorando che il cambiamento vive in ogni scelta, in ogni secondo, in ogni passaggio, ed erroneamente ponendo la riuscita di tale cambiamento come fine di un percorso lungo e scomodo. Ma lo stesso ritenere di poter arrivare ad un punto dove i limiti sono del tutto superati, lascia intuire una totale assenza di consapevolezza verso il concetto di limite stesso, il mutare se stessi in una versione migliore di sé è per assurdo una antinomia, non è possibile, quanto è a noi concesso è il semplice preferire una scelta ad un’altra, manifestando ogni volta il desiderio di arrivare ad un punto x, non posto, che si manifesta come vera realizzazione della propria essenza.
E tale vera forma di miglioramento non può essere prestabilita, io non posso già intuire l’uomo migliore che diventerò e cercare di raggiungere quella stasi, è mio dovere in ogni momento agire come se già avessi raggiunto quel punto, e farlo da subito, evitando quella che diventerebbe una continua procrastinazione del mio cambiamento.
Nella pigrizia dell’essere, che vive “oggi”, la parola più comoda e facile è sempre “domani”.