scritto da Filippo Falvella - 21 Luglio 2024 07:42

Il torpore della cicala

E allora ha atteso, ha atteso di perfezionarsi, di arrivare a quel momento priva di possibilità di fallire. Ma se quell'idea che la cicala aveva avuto avesse avuto senso e valore solo nel momento in cui l'aveva realizzata? E se il tempismo che aveva intuito era il momento perfetto per agire?

Non può non essere insolito iniziare una trattazione sulla natura umana con la descrizione di una vita animale, visto quanto distanti ormai siamo da quella natura generatrice attorno la quale sembriamo solo orbitare come un satellite artificiale, come dei figli che tutto d’un tratto si sono sentiti genitori. Ma questo non vuole assolutamente essere un discorso naturalistico, bensì più sociale: è sulla scia di Fedro che vorrei adesso, per meglio trattare questa socialità e questo spettro d’azioni che ancora dobbiamo nominare, scrivere un breve excursus sulla vita di uno specifico animale, la cicala.

Non sarà necessario adesso impegnarsi in chissà quale dissertazione biologica per trattare di quell’unico, o meglio quei due unici momenti, che la cicala sembra condividere con la nostra realtà attitudinale.

All’incipit della loro esistenza le cicale, in forma ancora larvale, trascorrono l’interezza della loro “gioventù” nel sottosuolo, in uno stile di vita ipogeo dove si preparano al momento della loro fuoriuscita dal suolo stesso, raggiungendo nei mesi più caldi i loro simili giù maturi, dando vita ad una sinfonia di canti non sempre apprezzatissima. Nulla di troppo alieno dalla realtà di qualsiasi forma di vita, la preparazione in una fase di vita a quella successiva, con una però fondamentale differenza: trascorreranno diciassette anni sotto al suolo, per prepararsi ad un solo mese di vita là dove l’aria traspira ovunque.

L’intera fase larvale delle cicale, quella minuziosa preparazione al quando dispiegheranno le ali, dura infinitamente più del momento stesso in cui voleranno libere. Certo, è impossibile non trovare una velata poesia in una intera vita dedicata al rendere possibili i suoi ultimi momenti in una sfera completamente nuova, non c’è dubbio. Ma se questa cicala, nella fremente attesa di realizzarsi nel suo vero essere, dovesse una volta fuoriuscita trovare una pavimentazione in cemento là dove aveva preparato il cunicolo per la sua fuoriuscita? Certo, se fosse uscita che so, due o tre anni prima, il suo percorso sarebbe stato privo di un simile intoppo, ma quella cicala non era certa: aveva bisogno di essere pienamente convinta dei suoi mezzi.

La cicala non era pronta a realizzare se stessa in un mondo dove quella che era la sua idea di vita non era ancora matura, non poteva di certo rischiare di fallire in un qualcosa che tanto era parte di lei. E allora ha atteso, ha atteso di perfezionarsi, di arrivare a quel momento priva di possibilità di fallire. Ma se quell’idea che la cicala aveva avuto avesse avuto senso e valore solo nel momento in cui l’aveva realizzata? E se il tempismo che aveva intuito era il momento perfetto per agire?

Non è possibile sapere se il mondo è pronto ad accoglierci o meno, ma è sicuramente intuibile quanto una troppo protesa attesa sia più nullificante di un troppo anticipato tentativo. Sì, è intuibile adesso che il soggetto di questa breve trattazione non è più la cicala e che lo scopo di questa autoreferenziale, in termini di specie, trattazione è finalmente stato raggiunto: il risolversi della analogia promessa.

Come cicale spesso attendiamo troppo, nella paura di fallire, per manifestare ciò che è il pieno sfogo della nostra sfera volitiva: la nostra realizzazione, che sia attraverso idee progetti o annunci.

La paura di fallire o di non esser capiti ci porta davvero spesso a dimenticare che anche la sfera temporale strizza l’occhio al più dolce dei dolori, il fallimento. Fallire è una propedeutica fase non del successo, ma dell’esistenza. Perché non investire lo stesso tempo che investiamo nell’attesa nei tentativi? Perché non metterci in gioco solo perché il mondo non sembra pronto alla nostra prontezza? Attendendo troppo magari finirebbe per non esserlo per davvero. Quando agiamo, in nome di noi stessi, la peggiore evenienza è sempre la stessa: un fallimento che in qualche modo ci allontana dal successo. Ma quando invece non agiamo togliamo dal nostro orizzonte non solo quel temutissimo fallimento, ma anche quel preziosissimo successo che tanto aneliamo. Allora perché non provare? Il peggio che può capitare è dover ritentare. Non è tanto ciò che desideriamo diventare alla fine d’un percorso a definirci, ma ciò che diventeremo nel momento in cui lo percorreremo.

Ho 24 anni e studio filosofia all'Università degli studi di Salerno. Cerco, nello scrivere, di trasmettere quella passione per la filosofia ed il ragionamento, offrendo quand'è possibile, e nel limite dei miei mezzi, un punto di vista che vada oltre quel modo asettico e alle volte superficiale con cui siamo sempre più orientati ad affrontare le notizie

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