Caro Direttore,
da qualche giorno rifletto sul concetto del limite della vita, ma non dal punto di vista proposto dall’Associazione Luca Coscioni, che io seguo e apprezzo, ma da un punto di vista differente, che ha le sue radici nella esperienza che da oltre un mese sto vivendo a causa dei motivi di salute che mi hanno confinato in una struttura sanitaria per il recupero fisico.
Per tale motivo sono in quotidiano contatto con una umanità variegata, maschile e femminile, che mi lascia riflettere.
Tante sono le persone che si mostrano vive, interessate alla vita, e che seguono le terapie con interesse e scrupolosità, segno evidente che non si arrendono agli acciacchi, agli infortuni, hanno la stessa vitalità che consente a me di migliorare le mie condizioni ed auspicare che, proseguendo con lo stesso impegno, non ci vorrà molto tempo per tornare in possesso di tutte le mie facoltà fisiche.
Ma, per contro, c’è una buona parte di ricoverati che sembrano aver perso ogni interesse a vivere.
Può sembrare strano, ma purtroppo è così.
E non è una questione di età, nel senso che più è avanzata e minore interesse si ha per la vita.
Vi sono persone più avanti negli anni che sono vitali, parlano, discutono, dibattono, raccontano le loro esperienze, bisticciano con i tifosi di un’altra squadra di calcio: in altre parole sono vivi.
Ci sono, per contro, persone meno anziane, circa il 30%, cadenti fisicamente e mentalmente, dalle quali non si può ricavare una parola, nemmeno a tirargliela di bocca con le pinze, sembrano dei cadaveri ambulanti, senza alcun interesse a ciò che li circonda.
Ovviamente il tutto si inquadra pure in un contesto culturale, termine inteso non come livello di studio, titolo di studio, eccetera, ma unicamente come acquisizione di conoscenze, scolastiche, tecniche, e di esperienze di vita.
Nel mentre gli uni sono vitali e vogliono continuare a vivere, gli altri sembrano dei morti aggrappati ai carrelli della deambulazione costantemente retti e seguiti dagli addetti alle terapie, ma che non dimostrano più nessun interesse a vivere.
È a questo punto che si pone il quesito: fino a che punto è utile tentare di resuscitare un corpo che non ha più alcun interesse a sopravvivere?
Quesito drammatico che ci riporta alle teorie naziste, che ipotizzavano la eliminazione fisica di chi non serviva; teoria che già molti secoli prima era stata seguita dagli spartani, che avevano deciso di privare della vita i bambini nati menomati, e li sacrificavano gettandoli dalla Rupe del Monte Taigeto.
Ed è a questo punto che mi fermo, non osando invadere il campo di chi in proposito può dare lumi, per evitare di giungere a conclusioni affrettate.
Anche perché il ragionamento si blocca quando si riflette sul fatto che il nostro Servizio Sanitario Nazionale, ispirato alla Carta costituzionale, stabilisce di non lasciar dietro nessuno, principio sacrosanto tuttora applicato.
Lo stimolo è di aprire un dibattito tra i lettori, augurandoci che ad esso partecipino in molti.
Grazie.
Nino Maiorino