Il disastro del Vajont è stato uno dei più gravi avvenuto in Italia.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963, circa 270 milioni di m³ di roccia del monte Toc scivolarono alla velocità di 30 m/s nel bacino artificiale sottostante creato dalla diga del Vajont, provocando un’ondata di piena che risalì il versante opposto, si riversò sulla vallata sottostante, distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, e si riversò nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i comuni limitrofi.
Vi furono 1.917 vittime, di cui quasi 500 bambini.
Lo scrittore Dino Buzzati, che scriveva per il Corriere della Sera, raccontò così la tragedia: Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.
Queste alcuni dei racconti dei testimoni di quella tragedia rimasta una piaga terribile nella storia contemporanea del nostro Paese.
“Avevo spento da poco la luce quando avvertii la terra tremare – ricordò una madre – mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano, […] li avvinsi a me. Sentii l’acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola al campo sportivo su un pino ove l’acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato ritrovato nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi di casa mia. I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana”.
Un prete invece raccontò: “Quella sera, verso le 10 e mezza, sento questo rumore di frana, apro la finestra e il rumore aumentava in modo straordinario, contemporaneamente al bagliore che credevo fosse il riflettore, invece poi ho saputo, era il corto circuito dei trasformatori che ha illuminato quasi a giorno la valle. C’era poi una colonna d’acqua molto alta, che ha poi distrutto molte case, e il terremoto, con un boato tremendo, spaventoso, e poi tutto il resto. L’onda, più o meno, arrivava alla sommità del mio campanile. Dunque se Casso, nel punto più alto, è 250 metri dalla diga, senza esagerazione (l’onda) è stata verso i 300 metri”.
La diga del Vajont era stata progettata dal 1926 al 1959 dall’ingegnere Carlo Semenza, e successivamente costruita tra il 1957 e il 1960 nel comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, lungo il corso del torrente Vajont.
La diga è alta 261,60 m e nel 2021, a oltre 60 anni dalla costruzione, è ancora l’ottava diga più alta del mondo, con un volume di 360 000 m³ e con un bacino di 168,715 milioni di metri cubi.
All’epoca della costruzione (1957-1960) era la diga più alta al mondo. Fu superata nel 1961 dalla Grande Dixence, situata in testa alla Val d’Hérens nel Canton Vallese della Svizzera, che è la diga più alta d’Europa.
Lo scopo della diga del Vajont era di fungere da serbatoio idrico di regolazione stagionale per le acque del fiume Piave, del torrente Maè e del torrente Boite, che precedentemente andavano direttamente al bacino della Val Gallina, che alimentava la grande centrale di Soverzene, in Provincia di Belluno.
Le acque, sottratte al loro corso naturale, venivano così incanalate dalla diga di Pieve di Cadore (fiume Piave), da quella di Pontesei (torrente Maè) e da quella di Valle di Cadore (torrente Boite) al bacino del Vajont tramite chilometri di tubazioni in cemento armato vibrato e spettacolari ponti-tubo.
In questo sistema di “vasi comunicanti”, le differenze di quota tra bacino e bacino venivano usate per produrre energia tramite piccole centrali idroelettriche, come quella del Colombèr, ricavata in caverna ai piedi della diga del Vajont, e quella della Gardona, nei pressi di Castellavazzo (proveniente dal bacino di Pontesei, in Val di Zoldo).
Le acque scaricate dalla centrale di Soverzene venivano poi condotte, in parte al Piave, e il restante tramite un canale artificiale, al lago di Santa Croce, quindi alle centrali del Fadalto, nella Val Lapisina e alle tre finali, nei comuni di Cappella Maggiore, Caneva e Sacile.
Dopo il disastro del 1963 la diga non è stata più utilizzata, anche se oggi c’è un certo interesse per questa opera: turismo o cos’altro?
La diga era un mostro, solo a guardarla faceva spavento, ma non furono molti che si interrogarono sui pericoli che essa avrebbe potuto comportare per la popolazione, anche perché, all’epoca, non era molto vivo il senso del disastro, fra l’altro imprevedibile per i più; certamente oggi ci poniamo il problema della fortificazione a monte della montagna che grava su un tale invaso, all’epoca nessuno aveva previsto che la montagna potesse scivolare giù, cadere a rilevante velocità sull’invaso e determinare quell’onda colossale che provocò quel disastro.
Ma ci fu qualcuno che si pose il problema prima del disastro, e fu una giornalista dell’Unità, Tina Merlin (niente a che vedere con la senatrice Lina Merlin, quella della omonima legge che fece chiudere le case di tolleranza), che aveva previsto il pericolo, cercò di evidenziarlo anche con articoli sul giornale, per i quali venne pure denunziata dalla società costruttrice; e se fosse stata ascoltata i 1917 morti si sarebbero evitati.
Tina Merlin era nata nel 1926 a Trichiana, in provincia di Belluno. Apparteneva a una famiglia contadina povera, ed era l’ultima di sei fratelli, più altri due nati dal primo matrimonio della madre. Aveva frequentato le scuole fino alla terza elementare, per poi spostarsi a Milano e lavorare come cameriera. Pian piano tutti i suoi fratelli maschi erano morti, chi di malattia, chi di lavoro, chi in guerra.
Anche lei aveva partecipato come staffetta per la Resistenza, unendosi a una brigata partigiana autonoma.
Dopo la guerra si era iscritta nel PCI di Palmiro Togliatti, frattanto aveva studiato colmando il gap iniziale e, grazie a un concorso letterario, nel 1951 era diventata corrispondente dell’Unità.
Dopo il matrimonio con Aldo Sirena, già comandante di due brigate partigiane, iniziò a occuparsi dei problemi della montagna veneta, piagata da emigrazione, sottosviluppo, disoccupazione e spopolamento. Fu così che iniziò a tenere d’occhio i lavori per la costruzione del Vajont, come lei stessa avrebbe raccontato, diversi anni dopo, nel libro Sulla pelle viva: lei, come la gente della valle, conosceva benissimo i rischi.
Il territorio era ormai degradato al massimo, la gente era emigrata, e mancava chi accudisse, come un tempo, alla manutenzione dei corsi d’acqua che lambiscono le piccole proprietà contadine ora abbandonate, e che ricevevano mille rivoli dalle montagne disboscate e in dissesto.
I torrenti straripavano ovunque, venivano intasati dai materiali che precipitano a valle dalle colline erose dalle piogge.
Gli abitanti dei villaggi montani lo sanno, non occorre essere geologi per conoscere il territorio sul quale si è vissuti per secoli, il “giro” delle lune e dei venti, il loro combinarsi con l’umidità e la temperatura.
Da tutto questo i contadini hanno sempre imparato ad affrontare la natura, a coltivare la terra, a prevedere possibili disastri.
Tina Merlin tutto questo lo denunciò sul suo giornale, e per questo venne addirittura denunciata per diffamazione dalla SADE, la società elettrica che a quel tempo aveva il monopolio sull’energia elettrica nel nostro paese.
Sarebbe stata poi assolta, grazie alla testimonianza degli abitanti di Erto e Casso. Ma, nonostante la sua ostinazione e diverse interpellanze dei parlamentari, le accuse non vennero ascoltate e la diga fu costruita, nessuno si preoccupò delle prime frane e delle grandi spaccature nel terreno.
E quello fu il risultato: 1917 morti, danni enormi al territorio, una tragedia dalla quale esso si riprese con difficoltà.
Solo per il 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario del disastro, la regione Veneto ha stanziato un milione di euro per la messa in sicurezza e il recupero delle gallerie interne alla montagna, dette “strada del Colomber” (la vecchia statale 251). Nel 2014 il finanziamento è stato riassegnato dalla giunta regionale per la realizzazione del nuovo Centro Sanitario di Longarone, nell’ambito della fusione tra gli ex comuni di Longarone e Castellavazzo.
Ora sembra che si ipotizzi una riattivazione della diga, ma non si comprende bene con quali opere di messa in sicurezza, né se valga la pena dal punto di vista economico.
Tina Merlin si è spenta dopo una lunga malattia a 65 anni, il 22 dicembre del 1991. Il suo libro era stato pubblicato solo pochi anni prima.