scritto da Redazione Ulisseonline - 30 Agosto 2022 09:07

Giulio Andreotti: «Nulla ho mai avuto a che fare con la mafia»

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Con riferimento agli articoli «Andreotti e la Mafia» di Nino Maiorino invio alcune considerazioni sui processi che ne danno una lettura sostanzialmente diversa, in particolare sulla sentenza di Cassazione su Palermo che non si pronuncia sinteticamente nei termini riportati (fino al 1980 è stato associato a Cosa Nostra), ma afferma che “i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse”, ma non rientra tra i compiti della Cassazione “operare una scelta tra le stesse” e che, valutando le motivazioni della Corte d’Appello, non solo ha sentito il dovere di precisare che la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi “è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivise”, ma ha addirittura aggiunto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello “sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica”. Forse una lettura serena di quanto sotto riportato farà sorgere più di qualche dubbio sull’affermazione finale degli articoli che mio padre fu certamente legato alla mafia.

Alcune considerazioni sulla vicenda processuale di nostro padre Giulio Andreotti

Sulla vicenda giudiziaria di nostro padre va innanzitutto fatta una premessa: chi davvero vuol conoscere la realtà e i processi che intorno a essa sono stati celebrati dovrebbe leggere con attenzione tutti gli atti.

E’ infatti la lettura completa delle carte che documenta in modo inconfutabile se e cosa l’accusa aveva ipotizzato e qual è stato l’effettivo esito dei processi.

Va detto che chi ne torna a parlare oggi (e lo fa quando ormai naturalmente nostro padre non può più replicare) quasi mai ricorda il processo di Perugia o lo fa in maniera spesso superficiale o lacunosa.
Anche questo processo ebbe origine dalla stessa fonte palermitana, in particolare dalle dichiarazioni del cosiddetto pentito Tommaso Buscetta, che accusò nostro padre di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli eseguito per suo conto dalla mafia; posizione sostenuta anche dai rappresentanti dell’accusa nel processo di Palermo.

Nostro padre sarebbe stato a conoscenza che il giornalista aveva in mano carte del sequestro Moro che, se svelate, avrebbero nuociuto gravemente alla sua carriera politica. Nel 1978 nella perquisizione del covo brigatista di via Montenevoso a Milano fu rinvenuto il cosiddetto memoriale Moro; dodici anni dopo nello stesso appartamento, dietro un pannello di gesso, rimosso per una ristrutturazione, furono ritrovate le fotocopie del memoriale scritto a mano dall’onorevole Aldo Moro, una parte del quale era del tutto nuova. Gli originali scritti a mano non furono mai ritrovati.

L’accusa nei due processi sostenne che qualcuno, forse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, aveva deciso di occultare quella parte del memoriale rinvenuto nel 1978 che avrebbe potuto compromettere la carriera di nostro padre; quelle pagine sarebbero finite nelle mani del giornalista.

Un certosino lavoro di comparazione dei due testi (quello del 1978 e quello del 1990) svolto dalla difesa di nostro padre ha permesso di arrivare alla conclusione che venne poi recepita dal Tribunale.
‘Deve in conclusione affermarsi che che proprio la lettura comparata dei due testi dimostra inconfutabilmente l’infondatezza dell’ipotesi accusatoria. Emerge in alcune parti del memoriale, inedite fino al 1990, un tono talora addirittura meno polemico nei confronti dell’On. Andreotti al punto che la immediata ed integrale pubblicazione degli atti e soprattutto dell’originale del manoscritto (rinvenuto ed edito nel 1990) avrebbe consentito di evidenziare subito persino alcune palesi alterazioni e manomissioni operate dai brigatisti nella trascrizione dello scritto dello statista ucciso’.

Al termine dei vari gradi di giudizio nostro padre fu definitivamente ASSOLTO per non aver commesso il fatto.
La competenza era stata tolta a Palermo perché coimputato era il giudice Claudio Vitalone, nel capoluogo siciliano era rimasto il processo per associazione mafiosa perché nostro padre non fu giudicato come parlamentare o uomo di governo, con conseguente inevitabile trasferimento a Roma, ma come capo corrente della Democrazia Cristiana locale.

Allo svolgimento del processo si dedicarono anni, con il dispiego di un incredibile mole di risorse e di denaro pubblico, alla ricerca di testimonianze e prove con un indagine che passò a tappeto tutta l’Italia e non solo.
La grande investigazione non riuscì a produrre equivalenti risultati, se non riscontri su episodi per lo più insignificanti e marginali e testimonianze che spesso ben poco avevano a che fare con il tema in questione.

La stessa sentenza di Appello, che come vedremo è stata la meno favorevole a nostro padre, riguardo alle varie testimonianze raccolte giudicò non ‘trascurabile la possibile incidenza di inclinazioni alla mitomania e/o al protagonismo giudiziario e perfino l’influenza di antipatie politiche anche su quegli atteggiamenti spontaneamente collaborativi dai quali erano scaturite alcune, più o meno tardive testimonianze’; in tale contesto vanno poi citate le innumerevoli testimonianze portate in aula dall’accusa su episodi che ben poco se non niente avevano a che vedere con il processo e che hanno contribuito a dilatare i tempi dell’interminabile svolgimento del processo oltre ogni ragionevole durata.
Nel capitolo testimonianze spetta una notazione particolare quella dei tanti cosiddetti collaboratori di giustizia che quasi quotidianamente spuntavano fuori ad accusare nostro padre, con versioni che quasi mai trovavano riscontri e che spesso contraddicevano quelle rilasciate dagli altri se non dagli stessi in precedenza. Si venne anche a sapere che alcuni di loro erano liberi di frequentazione reciproca fuori dal processo con il rischio, definiamolo così, che potessero influenzarsi a vicenda.

La sentenza di Appello parla anche al riguardo di ‘una certa propensione di taluni collaboratori di giustizia ad offrire indicazioni a carico di Andreotti’ e che spesso le informazioni riferite potevano provenire solamente dai vertici del sodalizio mafioso, ‘con la possibile incidenza sulla veridicità del loro contenuto e sulla messa in circolo di erronee valutazioni, quando non di precisi interessi e scopi verticistici, strettamente inerenti alle esigenze di governo della organizzazione criminale’.

Il fiume di denaro pubblico speso fu tenuto rigorosamente nascosto, il solo Baldassarre Di Maggio, (il narratore della fantasiosa storia dell’incontro con Riina e ben presto tornato al crimine) si lasciò sfuggire in aula che il compenso riconosciutogli, oltre ad un congruo stipendio mensile di quasi sei milioni di lire, ammontava ad un miliardo e cinquecento milioni di lire. A seguito delle voci raccolte di esponenziali incrementi dei benefici economici accordati ai collaboratori che deponevano contro di lui, nostro padre produsse in aula una lettera circolare diretta agli uffici interessati che invitava a tenere il massimo riserbo su modalità e corresponsione dei benefici stessi.

Altro punto riguardò la ricerca dei favori e degli interventi che nostro padre avrebbe fatto a favore della mafia; anche qui il risultato delle innumerevoli indagini non portò ad alcun risultato concreto, con la rassegnazione di chi le conduceva di imbattersi unicamente nelle azioni intraprese per combatterla. Uno dei cavalli di battaglia dell’iniziale teorema dell’accusa era quello degli interventi di nostro padre presso il giudice Corrado Carnevale per far annullare le sentenze contrarie alla mafia; anche su questo punto fu accertata l’assoluta inconsistenza degli addebiti.

Nostro padre ha tenuto e conservato sin da giovane per sua fortuna un’agenda e un diario attraverso i quali è stato in grado di ricostruire, anche con l’ausilio di fonti ufficiali e notizie di stampa, gli spostamenti da lui effettuati in qualsiasi giorno della sua vita; a questo si deve aggiungere che dagli anni del terrorismo ha avuto con sé gli uomini della scorta, che lo hanno sempre accompagnato in ogni spostamento e in ogni viaggio, senza nessuna eccezione, quando usciva di casa. Tutte le volte che veniva dall’accusa ipotizzata una data in cui sarebbe potuto essere avvenuto un incontro clandestino, nostro padre è stato così in grado di smentire la circostanza. L’unica possibilità che rimaneva era quella di cercare di addebitare fatti senza una collocazione temporale precisa e a questo in qualche caso si è ridotta a ricorrere l’accusa.

Il processo di primo grado si concluse con la formula dell’ASSOLUZIONE perché il fatto non sussiste.
Il processo di secondo grado con la formula dell’ASSOLUZIONE che riteneva prescritto quanto avvenuto fino alla primavera del 1980 e confermato quanto stabilito dalla prima sentenza per il periodo successivo.

In particolare la diversa valutazione del periodo antecedente la primavera del 1980 si faceva risalire ‘al grave errore di immaginare di poter agevolmente disporre dei mafiosi e di guidarne le scelte imponendo, con la propria autorevolezza e prestigio, soluzioni incruente e politiche’; atteggiamento radicalmente mutato, dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, con l’adozione di provvedimenti di ferma lotta alla mafia dei Corleonesi ‘quali l’attività svolta per ottenere l’estradizione di Buscetta e l’impegno profuso per la difficoltosa approvazione del provvedimento che avrebbe prolungato i termini di custodia cautelare, impedendo la scarcerazione, nel corso del giudizio di appello, di numerosi imputati del maxiprocesso, interpretati dalla Corte come manifestazioni di particolare fervore antimafia’.
A questo va aggiunto che fra i maggiori oppositori al citato provvedimento ci fu l’onorevole Luciano Violante, che si espresse pesantemente contro il prolungamento dei termini di custodia preventivi per gli imputati di mafia portati in carcere dai giudici Falcone e Borsellino con la conseguenza che gli stessi sarebbero potuti uscire di prigione e con la quanto meno rischiosa certezza di poterli controllare in altro modo. Tra le azioni intraprese vanno ricordati poi numerosi provvedimenti di lotta al narcotraffico, lo scioglimento dei Comuni per infiltrazione mafiosa, la legge premiale sui pentiti, l’istituzione della Procura Nazionale Antimafia, alla cui guida fu osteggiata la nomina di Giovanni Falcone proprio da coloro che gli erano stati in precedenza vicini.

Su questo punto ci sentiamo di esprimere una considerazione: è davvero curioso pensare che un uomo politico esperto, sin da giovane chiamato a ricoprire le più alte cariche dello Stato, abbia accettato di essere in un primo tempo in contatto con la mafia per poi, come un nuovo San Paolo folgorato sulla via di Damasco, diventare il politico che nella storia repubblicana ha adottato i più severi provvedimenti di lotta alla stessa.

Un argomento che è stato talora riportato agli onori della cronaca sono stati i due presunti incontri di nostro padre, a cavallo dell’omicidio di Piersanti Mattarella, con Stefano Bontate, non ritenuti avvenuti dai giudici di primo grado al contrario del convincimento dei giudici di appello; la diversa valutazione delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Marino Mannoia, che depose sull’argomento, è stata probabilmente alla base delle differenze fra le due sentenze.

Nella ricostruzione di Marino Mannoia nel primo incontro sarebbe stato richiesto a nostro padre un intervento su Piersanti Mattarella per fargli mutare la linea di condotta politica e amministrativa che confliggeva con gli interessi di Cosa Nostra; questa secondo sempre il racconto di Marino Mannoia, avrebbe successivamente deciso di uccidere l’uomo politico per un suo intollerabile ‘voltafaccia’ essendo in passato stato in rapporti ‘intimi’ e ‘amichevoli’ sia con i cugini Salvo che con Bontate al quale ‘non lesinava i favori’. Nel secondo incontro nostro padre, resosi conto della errata valutazione fino ad allora seguita di poter controllare in modo pacifico una Cosa Nostra a torto valutata non sanguinaria, ne avrebbe preso le distanze adottando una ferma lotta all’organizzazione criminale.

In un intervento recente il titolare dell’accusa ha definito il Marino Mannoia, ‘un collaboratore di giustizia storico, sul quale mai nessuno ha potuto avanzare riserve di sorta in punto precisione e attendibilità’. La sentenza di primo grado non aveva invece creduto al suo racconto, che come sopra riportato addensava anche pesanti e non provate ombre sulla figura di Piersanti Mattarella.

E’ appena il caso di ripetere come già osservato che dai tempi del terrorismo nostro padre aveva la assoluta impossibilità, anche se avesse voluto farlo, di partecipare a incontri tanto più se clandestini senza lasciare traccia; anche per i due citati le date ipotizzate dall’accusa erano state da lui sistematicamente dimostrate come impossibili, con il ripiegamento dietro il comodo paravento della affermazione che erano avvenuti ma non si poteva ricostruire con esattezza la collocazione temporale.

Esiste però un terzo grado di giudizio, la Cassazione, che emanò la sentenza definitiva che ha messo la parola fine all’interminabile processo; la Suprema Corte, proprio in relazione alle due sentenze precedenti, quella del Tribunale e quella della Corte d’Appello, esplicitamente afferma: ‘i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse’, ma non rientra tra i compiti della Cassazione ‘operare una scelta tra le stesse’.

La sentenza della Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo per i fatti successivi al 1980, riconoscendo assoluta estraneità di nostro padre a Cosa Nostra. Quanto invece al periodo di tempo antecedente al 1980, coperto dalla prescrizione e rispetto al quale la Cassazione aveva limitati poteri di controllo, i giudici di legittimità, valutando le motivazioni della Corte d’Appello, non solo hanno sentito il dovere di precisare che la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi ‘è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivise’, ma hanno addirittura aggiunto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello ‘sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica’.
Richiamare la sentenza della Cassazione come mera conferma della sentenza di Appello, citando tra l’altro unicamente le parti della stessa che si limitano a riportare brani della seconda, non tiene evidentemente conto del contenuto e delle conclusioni ben diverse alle quali, come sopra citato, è pervenuta.

E’ così ripercorso quello che è stato il cammino giudiziario di questa interminabile vicenda; vorremmo aggiungere alcune considerazioni che escono dallo stretto esame della cronaca giudiziaria. Va innanzitutto detto che, come è evidente, non necessariamente la verità processuale corrisponde a quella storica; nostro padre è stato un fervido mafioso, ha coltivato i rapporti con i peggiori criminali, li ha protetti e aiutati, ha speso tutta la sua influenza per far loro ottenere ogni sorta di beneficio, ha loro chiesto di uccidere tutti coloro che ne potevano intralciare il cammino. E’ stato così abile da nascondere lungo la sua interminabile vita pubblica ogni traccia, al punto che la formidabile macchina investigativa che lo voleva inchiodare non è riuscita a trovare riscontri plausibili a questa vita da super criminale.

Si deve però verosimilmente pensare che la verità storica sia un’altra e cioè che nostro padre nulla abbia avuto a che fare con la mafia, verità certamente non gradita a chi non si rassegna neanche ad accettare, dopo la montagna di accuse giudiziarie formulate, il magrissimo contentino giudiziario ottenuto.

Si può seguendo questa scia considerare come la sentenza di assoluzione di primo grado di Palermo sia stata, dopo tutti gli sforzi che erano stati profusi dall’accusa per avallare la sua tesi e dopo tutti gli anni in cui si era tenuto alla sbarra uno dei principali esponenti della storia della nostra Repubblica, un grandissimo insuccesso che non si limitava a colpire il singolo procedimento, ma poteva essere interpretato più in generale nel tema relativo alla conduzione della giustizia.

Ad analoghe e forse anche maggiori conclusioni di stupore si arrivava anche per le decisioni raggiunte nell’incredibile processo parallelo per omicidio del giornalista Mino Pecorelli; anche in quel procedimento si era tenuto nostro padre sotto scacco per anni e in quel caso addirittura per omicidio per arrivare alla logica sentenza di totale proscioglimento.

Si deve d’altra parte considerare come la seconda sentenza di Palermo, riconoscendo per una parte prescritto quanto considerato avvenuto, comunque non portava ad alcun effetto pratico.
Si tenga anche conto che il 16 novembre del 2002 la Corte di Appello di Perugia, aveva emesso condanna a nostro padre per l’omicidio di Mino Pecorelli, (sentenza poi completamente distrutta dalla Cassazione), basandosi sull’assunto che la mafia avrebbe agito per suo conto.

La condanna di Perugia, benché come sarebbe stato successivamente stabilito dalla Cassazione infondata, dovette pesare, e molto, sulla Corte di Appello di Palermo, chiamata ad emettere sentenza nel maggio 2003. Una completa assoluzione di nostro padre, come avvenuto nel processo di primo grado, avrebbe platealmente smentito i colleghi di Perugia.

Si potrebbe definire un corto circuito giudiziario che ha fatto sì che una falsa verità giudiziaria andasse ad influire in un’altra narrazione giudiziaria.
Come sopra ricordato la Sentenza di Cassazione del novembre 2003 ha poi messo la parola fine per Perugia dopo dodici anni con la definitiva ASSOLUZIONE per non avercommesso il fatto ( n termini insindacabili e ben diversi da quelli che ancora oggi qualcuno vorrebbe mettere in dubbio).
Torniamo ora agli inizi della penosa vicenda; nei primi anni novanta fra il gran numero di politici che venivano travolti dal cosiddetto scandalo tangentopoli, non si poteva coinvolgere nostro padre, anche perché per sua fortuna non si era mai dovuto occupare dei problemi di finanziamento dei partiti, non avendo mai ricoperto cariche di primo piano nella sua Democrazia Cristiana.

Gerardo Chiaromonte lo avvertì, mettendolo in guardia sulla preparazione di un bel ‘pacco’ sulla mafia; dopo poco scoppiò il caso e partì la vicenda sopra richiamata.
Nostro padre era convinto che uno zampino nella vicenda fosse stato messo anche da qualcuno negli Stati Uniti, a causa di alcune posizioni da lui in quegli anni prese o condivise che non erano certo piaciute agli americani. Cercò anche di indagare in tal senso, affidando la ricerca ad un professionista statunitense, ma si arrese di fronte alla necessità di coinvolgere un’agenzia investigativa dai costi non sostenibili.

Certamente conosceva chi in Italia nell’ambito politico, giudiziario e diciamo così ‘ex giudiziario’ era dietro al tutto. In tanti anni abbiamo sentito uscire una sola volta dalla sua bocca una definizione non proprio oxfordiana: si può immaginare facilmente, crediamo, a chi fosse rivolta.

Nei primi tempi nostro padre ne uscì travolto, non aveva la forza di reagire, passava lunghe ore a dormire, imbottito di calmanti anche di giorno, abituato lui a dormire solo poche ore di notte. A fianco a casa aveva mia madre, caduta in una terribile depressione dalla quale si sarebbe più o meno ripresa con molta fatica dopo lunghissimi anni e interminabili cure, che certamente non contribuiva a rasserenarlo.

In quel periodo vennero fuori anche problemi fisici, probabilmente emersi secondo quanto riferito dai medici anche per lo stato generale, che lo portarono a subire tre operazioni chirurgiche.
Nostro padre aveva però una grande risorsa, che lo portò presto a reagire e a riacquistare la voglia di lottare: la sua coscienza era a posto, ben conosceva l’assurdità di quanto gli veniva addebitato.

Ebbe allora un grande aiuto da parte di tante persone che gli erano rimaste vicino, certamente anche da noi in famiglia che cercammo in tutti i modi di sostenerlo.
Dovunque andava, con sempre maggior frequenza, riceveva attestati di stima e di simpatia soprattutto dalla gente semplice del popolo, dal quale lui veniva e che sempre aveva considerato sua.

Due persone però rappresentarono per lui una grande ancora di salvezza; avere l’assistenza morale di due ‘Santi’ per chi come lui ha vissuto con una profonda fede in Dio valeva più di ogni altro giudizio.
Madre Teresa di Calcutta bussò un giorno senza preavviso alla porta del suo ufficio, gli strinse le mani e gli diede parole di grande conforto invitandolo a reagire sicura che alla fine avrebbe superato una così dura prova.

Giovanni Paolo II in tante occasioni private e pubbliche non mancò mai di dargli il suo sostegno, invitandolo a sopportare le prove ‘ingiuste’ che era chiamato a sopportare con l’augurio che potessero servire, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, a far del bene non solo a lui, ma all’Italia. In uno degli scritti a noi lasciati nostro padre si esprime così: ‘Rivolgo un pensiero devotissimo al Papa che è stato con me di una bontà commovente. Non lo avrei mai esposto ad un errore, se non fossi stato più che sicuro sui fatti contestatimi.’

Seguirono i lunghi anni del processo, nostro padre riprese a vivere la sua vita di sempre dedicandosi all’attività parlamentare, alla politica estera, la sua più grande passione, a scrivere libri e articoli, ad intervenire a dibattiti, con l’aggiunta di vestire i panni dell’imputato modello. Partecipò alle udienze, sopportò l’interminabile calvario senza urlare o uscire dai binari in nome di una primaria esigenza, quella del rispetto delle istituzioni nelle quali aveva vissuto e alle quali continuava a credere.
Accettò con un nuovo spirito la prova al quale era sottoposto:
‘Nella mia vita ho avuto tanto: incarichi, onori, fiducia, riconoscimenti accademici. Che potevo offrire in cambio alla Provvidenza divina? Forse questi anni di sofferenze e di calunnie servono a bilanciare un corso di vita tutto favorevole. Ho dichiarato che questa lunga quaresima ha fatto bene al mio spirito. Ero abituato a troppi onori e tappeti rossi. Non arrivo a ringraziare chi mi ha teso la trappola, ma non porto rancori.’

Nostro padre è morto all’età di novantaquattro anni e lo ha fatto in modo sereno. Chi è stato vicino a lui, lo ha conosciuto ed ha avuto modo di accompagnarlo durante la sua lunga vita sa bene chi è stato nostro padre, a quali valori ha improntato la sua condotta e a quali comportamenti si è sempre attenuto.

Nel suo testamento è scritto:
“Desidero ripetere con la serietà di un giuramento dinanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pecorelli, del gen. Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli assassinati”.

Distinti saluti,

Stefano Andreotti

Rivista on line di politica, lavoro, impresa e società fondata e diretta da Pasquale Petrillo - Proprietà editoriale: Comunicazione & Territorio di Cava de' Tirreni, presieduta da Silvia Lamberti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.