Ci siamo mai chiesti, effettivamente, che succederà dopo di Noi?
Nel senso ci siamo mai posti il tema di come sostenere lo sviluppo e la formazione delle nuove generazioni? Di quelli che, in sostanza, come la metti metti, prenderanno il posto di chi ci stava prima?
Un tempo, più o meno dieci anni fa, il dibattito pubblico era infarcito di un concetto esotico quanto antico e naturale come il Mondo: il ricambio generazionale della classe dirigente, tema che oggi, a parte qualche nostalgico conferenziere, sembra quasi del tutto scomparso.
La realtà che viviamo, per la sua dimensione pubblica nello specifico, è da diversi anni dominata da una pericolosa tendenza alla de-responsabilizzazione. Si fa fatica (sempre che ce ne sia qualcuno) a trovare qualcuno che sia realmente capace di assumersi la responsabilità di un errore o sbaglio qualsiasi. Come se tutti fossero infallibili.
Pure quando si ha torto, anzi soprattutto quando si ha torto, tutti fanno a gara a negare l’evidenza, pure fattuale e incontrovertibile, per dare la colpa a qualcun altro. E quando questo qualcun altro non ci sta allora, come al solito, governo ladro.
L’aria diventa talmente avvelenata che non bastano dati numerici e fatti per cambiare posizioni grottesche che non stanno in piedi nemmeno con la forza del buon senso.
E in questo caos che si nutre di un utilizzo poco consapevole dei mezzi di comunicazione digitali, la responsabilità, di quello che viene detto, affermato e, magari, fatto, diventa un concetto molto liquido e labile.
Tutti hanno la facoltà di dire tutto e il contrario di tutto e sembrano non trovare nessuno davanti pronto a sbarrargli la strada.
Un esempio, forse tra i più concreti e pericolosi del tempo che viviamo, è rappresentato dalla scarsa considerazione che, al momento, riveste quell’insieme di politiche e strategie che riguardano la valorizzazione, la crescita e lo sviluppo delle nuove generazioni intese, in maniera molto semplice ed essenziale, risorse fondamentali con cui un Paese intende costruire il proprio futuro.
Attualmente l’Italia è tra i Paesi più vecchi del Continente con un tasso di natalità di 1,32 per donna (dati Istat dal rapporto “Noi Italia”), distante di circa un punto dalla soglia ritenuta minima per il ricambio generazionale (2,1), e, inoltre, con un indice di vecchiaia (rapporto tra gli individui con più di 65 anni e i giovani di età inferiore ai 15) in costante aumento di circa 25 punti rispetto a dieci anni fa. Insomma siamo un Paese che sta invecchiando a vista d’occhio.
Ma questo non è il dato più preoccupante perché anzitutto non siamo i soli. A differenza nostra però, altri Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra, hanno attuato da circa venti anni diverse strategie con cui invertire concretamente il trend o comunque a minimizzarne gli effetti negativi: a iniziare dall’iter per la cittadinanza agli interventi di welfare destinati ai nuovi nuclei familiari.
Siamo un Paese che si fonda sulla famiglia che, culturalmente, è misura di tutto o quasi, dall’economia alla cultura. Eppure, stranamente, la famiglia, sembra, attualmente, tra le cose più bistrattate e dimenticate, preda di un dibattito che sembra avere molto di ideologico e poco, alla fine, di impatto concreto.
Le nuove generazioni, intendendo in maniera molto ampia la fascia che va dai 18 ai 30 anni, nel nostro Paese, non trovano un riconoscimento concreto come se fossero concepite, effettivamente, come un peso da mantenere piuttosto che come una risorsa grazie alla quale sostenere il futuro. Perché poi se un Paese invecchia aumentano in modo importante pure i costi di welfare che saranno sostenuti, guarda un poco, da chi lavora, quindi dalla componente più giovane. E se questa si riduce o lavora poco, per fare due conti, si riduce la capacità che il debito venga sostenuto.
Non è un dettaglio solo etico. Lavorare per sostenere lo sviluppo delle giovani generazioni è anzitutto conveniente e lungimirante dal punto di vista economico. Si tratta di invertire una concezione antiquata che vede le giovani generazioni come soggetto passivo e destinatario di interventi anziché attivo e apportatore di valore e opportunità.
Oltre le tante pinzellacchere a cui purtroppo il basso livello dell’attuale dibattito pubblico ci ha abituati, il tema dello sviluppo delle nuove generazioni è concretamente, forse, tra i temi più urgenti su cui lavorare.
Il concetto, pure se antico, vale ancora per il suo obiettivo concreto: il ricambio generazionale della classe dirigente è il modo, naturale, con cui una comunità, prima ancora che un paese, decidono che strada prendere, se vogliono fare banane o barattoli per sopravvivere e crescere. Non c’è un percorso preferito o una ricetta da seguire: la classe dirigente, intesa come persone capaci, ci sta sempre nel senso si rinnova, il tema cruciale è come sostenerne lo sviluppo e, in maniera fondamentale la selezione.
Abbiamo avuto classi dirigenti capaci, pure negli ultimi anni, solo che, forse, per i tanti errori del passato, e le tante non responsabilità, si sono trovate a gestire errori e fardelli pesanti da digerire.
Non più classi digerenti quindi ma dirigenti.
Di questo abbiamo bisogno e per farlo basta chiedersi quello che stiamo facendo per quelli che verranno dopo di noi.