Nell’ultimo articolo pubblicato in data 21 giugno, clicca qui per leggere, ci siamo riservati di tornare sull’argomento per parlare dei casi di alcuni pazienti che aspettano dalle Istituzioni di poter accedere alla “dolce morte” che ponga fine alle loro sofferenze.
Nel corpo dello stesso è stato citato il caso di Mario, col nome seguito dal “ ?”, in quanto fino ad alcuni giorni fa il poveretto era ancora in vita e il nome finto gli era stato attribuito per evitarne la individuazione.
Ora Mario giovedì 15 giugno è passato a miglior vita (sono stati sufficienti pochi minuti) ed ha autorizzato ufficialmente a divulgare le sue generalità: si tratta di Federico Carboni, 44 anni di Senigallia, fino a ora conosciuto come Mario.
E’ il primo ad aver ottenuto nel nostro paese la morte volontaria, con l’aiuto, anche finanziario, dell’Associazione Luca Coscioni, perché, pure esistendo una legge che lo consente, purtroppo non c’è alcuna legge che preveda che il S.S.N. se ne assuma pure la spesa.
E’ primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale del 2019 sul caso Cappato-Antoniani.
Il caso di Federico Carboni ha smascherato non solo i limiti della attuale legislazione, ma anche della legge, già approvata alla Camera, ora in corso di dibattito al Senato, e si auspica che il testo venga modificato con l’eliminazione di tutte le attuali discriminazioni tra persone ammalate, prima fra tutte quelle che riguardano la presenza dei “sostegni vitali” che non tutte le malattie irreversibili prevedono (vedi il caso dei malati oncologici).
Se il Senato dovesse approvare senza modifiche la legge che sta discutendo, altre persone in condizioni diverse da Federico, ma ugualmente gravi, avrebbero come unica strada le vie giudiziarie: sarebbe un passo indietro che gli ammalati non possono permettersi di andare all’estero o di pagare di tasca propria i quasi 5.000 euro necessari per ottenere la strumentazione necessaria a una morte rapida e indolore, come è capitato a Federico Carboni, che ha ricevuto il sostegno economico dell’Associazione Coscioni.
Federico Carboni era un autista di autotreni, a 44 anni era nel pieno del vigore fisico, e avrebbe potuto vivere ancora a lungo se in un drammatico incidente stradale non avesse perso il controllo dell’autotreno rimanendo gravemente ferito e perdendo l’uso di tutte le funzioni vitali; era diventato tetraplegico, condizione pienamente riconosciutagli dalle Autorità sanitarie; in virtù di tale riconoscimento aveva richiesta di porre fine alla sua esistenza.
Però, purtroppo per lui e per tanti altri, la cosa non è stata facile, per varie ragioni, tutte di natura burocratica (“la burocrazia del fine vita”, come l’ha definita Michele Serra su “La Repubblica”) che genera anche difficoltà economiche legate alla mancanza di una legge che preveda che il SSN si assuma l’onere della spesa; tanti altri sono in questa situazione, tant’è che l’Associazione Luca Coscioni ha anche avviato una raccolta di fondi finalizzati all’assistenza di chi è autorizzato al trapasso.
“Ora finalmente sarò libero di volare dove voglio” sono le ultime parole di Carboni.
Ma la vicenda di Federico Carboni non è la sola e non sarà l’ultima, perché altri sono in lista di attesa per raggiungere l’auspicato fine-vita: e non si sa nemmeno quanti siano perché tanti di essi evitano di emergere per non aggiungere disagi ai dolori.
Comunque non è nostra intenzione parlare di tutti quelli conosciuti, sarebbe ingeneroso perché rischieremmo di tralasciare quei tanti che non hanno gli onori delle cronache.
Ma qualche altro caso vogliamo citarlo anche per evidenziare altre lacune legislative e burocratiche.
Come quello di Antonio La Forgia, 78 anni, ex Presidente della Regione Emilia-Romagna ed ex parlamentare del PD, malato di tumore contro il quale ha lottato per un anno e mezzo.
La Forgia, proprio in previsione di un fine vita di sofferenze, aveva a suo tempo sottoscritto la “D.A.T. – Dichiarazione Anticipata di Trattamento”, nominando fiduciaria la moglie Maria Chiara Risoldi.
Nonostante la DAT, citata nel verbale di avvio della procedura, ha dovuto penare non poco per giungere al sospirato fine vita.
I consueti burocrati -ma sarebbe meglio parlare della incapacità dei nostri politici di fare leggi chiare e applicabili- è vero che hanno introdotto la DAT, ma poi si sono fermati.
Alla fine, pure chi ha sottoscritto il rifiuto di qualsiasi trattamento che lo obblighi a stare in vita, si trova a dover soffrire perché nessuna legge prevede che, al distacco delle apparecchiature che tengono in vita, vi sia l’intervento di un medico che somministri un medicinale che agisca in pochi secondi.
La Forgia ha dovuto soffrire quattro giorni prima che la vita lo lasciasse, la moglie ha denunciato la palese ipocrisia pure della DAT, mettendo il nostro paese a confronto con l’Olanda, uno dei tanti Paesi che le cose le fanno senza eccessive burocratizzazione, dove chi rifiuta le cure, viene accompagnato immediatamente al fine vita: in Italia per Antonio La Forgia ci sono voluti quattro giorni di sofferenza.
Vogliamo concludere con un terzo caso, quello di Fabio Ridolfi, anch’egli tetraplegico marchigiano, a cui era stato chiesto il pagamento di 5.000 euro per la somministrazione dei farmaci per la sedazione.
Fabio Ridolfi era un 46.enne di Fermignano (Pe-Ur) nelle Marche, ed era immobilizzato a letto da 18anni per una Tetraparesi da rottura dell’arteria basilare, era totalmente immobilizzato e poteva muovere solo gli occhi con i quali, attraverso un puntatore oculare, riusciva a comunicare, ed aveva scelto la sedazione.
Nel febbraio del 2004, fu colpito dalla tetraparesi da rottura dell’arteria basilare, patologia irreversibile che lo porterà alla morte dopo 18 anni di immobilità.
Il 19 maggio scorso aveva ottenuto il via libera dal Comitato etico che aveva verificato la sussistenza dei requisiti, ma non aveva indicato le modalità né il farmaco che Fabio avrebbe potuto auto-somministrarsi: tipico caso di eutanasia (morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza di assistenza medica) autorizzata.
In effetti la scelta di Ridolfi è stata un ripiego, perché quella originaria era di sottoporsi ad una procedura di morte immediata, che non è stata autorizzata.
Quattro mesi prima, infatti, aveva chiesto l’aiuto del medico per il suicidio, previsto dalla sentenza 242 della Corte Costituzionale (quella che assolse Marco Cappato nel caso del DJ Fabo), ma incredibili e ingiustificati ritardi e boicottaggi da parte del S.S.N. lo hanno costretto a cambiare strada.
Aveva dichiarato: “Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene”.
La decisione è arrivata a seguito della mancata risposta da parte del Servizio Sanitario Regionale delle Marche che, dopo aver comunicato con 40 giorni di ritardo il parere del Comitato Etico per il via libera per l’aiuto medico alla morte volontaria, non ha mai indicato farmaco e lerelative modalità di somministrazione.
Si intravede, nel comportamento dell’Asur Marche, inadempimento per omissione di atti d’ufficio, reato che comporta una azione penale nei confronti dei responsabili.
Infine, il 12 giugno scorso, è iniziata la sedazione profonda, conclusasi dopo quattro giorni, durante i quali la intera comunità, il Sindaco Emanuele Feduzzi in testa, ha sostenuto i familiari che hanno commentato “non siate tristi, è quello che Fabio voleva, per lui è una liberazione”.
Nell’ultimo numero di Famiglia Cristiana Il cardinale Matteo Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha riflettuto sul suicidio assistito scrivendo che «La Chiesa è una madre che non sopporta la sofferenza dei figli. Una madre non vuole alcun accanimento. Una madre accompagna con amore, togliendo la sofferenza, non la vita».
E’ evidente, a nostro avviso, la contraddizione in quanto se una madre non sopporta che il figlio soffra, è la prima ad attivarsi perché la sofferenza abbia fine, e se la sofferenza non può in alcun modo cessare, non sarà certamente la madre ad opporsi alla morte.
Riflettendo su quanto abbiamo scritto, vien da dire che questi martiri vengono trattati dallo Stato italiano molto peggio dei peggiori criminali, prima imprigionati per anni nel loro stesso corpo, poi condannati ad essere giustiziati, e alla fine consegnati a un carnefice per essere giustiziati nel peggiore modo possibile, prolungandone i tormenti per giorni.
Ci poniamo, quindi, un interrogativo cruciale, che da sempre divide i sostenitori della visione etico-filosofica dai sostenitori della visione laica: prolungare un’esistenza solo dal punto di vista biologico ed a mezzo di terapie di alimentazione ed idratazione artificiali, significa davvero tutelare il “bene vita” e la dignità dell’essere umano?
Il 4 aprile del 1997 l’Italia aderì al primo Trattato internazionale sulla bioetica, la “Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina”, meglio conosciuto come Trattato di Oviedo, tappa fondamentale e prodromica per il nostro Paese relativamente alla regolamentazione legislativa della materia.
La Convenzione si era ispirata a quanto già proclamato nel lontano 1948 dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, fondandosi sulla consapevolezza che i “rapidi sviluppi della biologia e della medicina” avrebbero potuto “mettere in pericolo la dignità umana da un uso improprio” di tali scoperte; da qui la conseguente “necessità di rispettare l’essere umano sia come individuo, sia nella sua appartenenza alla specie umana, riconoscendo l’importanza di assicurare la sua dignità”.
Il 12 giugno scorso, il Ministro della Salute Roberto Speranza ha fatto una importante dichiarazione al quotidiano “La Stampa” di Torino: “Una volta che la procedura di verifica del rigoroso rispetto delle condizioni individuate dalla Consulta sia stata completata, le strutture del servizio sanitario nazionale non possono assumere atteggiamenti ostruzionistici, né è ipotizzabile che i costi siano a carico del paziente. Il governo, laddove ve ne sia bisogno, non farà mancare un tempestivo chiarimento e intervento, la legge non è più rinviabile”.
Non mettiamo in dubbio la volontà del Ministro di andare avanti su questa strada, ma non siamo certi che il Parlamento, ora in particolare il Senato, saprà risolvere definitivamente il problema.