Da Julia Roberts a Chiara Ferragni: la rivoluzione della pretty woman
In questo asfissiante inizio luglio, mitigato solo da poche ore da un impetuoso grecale che ha portato una breve ma consistente pioggia e temperature più miti, per completare un quadro già di per sé apocalittico, sono risultata positiva al covid19, ritrovandomi costretta a letto per di più da sola in una stanza della mia casa-prigione.
È in questo contesto che lunedì sera 4 luglio ho guardato, forse per la trentesima volta in trent’anni, Pretty woman, l’indimenticabile (anche perché come potremmo dimenticarlo visto che RaiUno lo ripropone ad intervalli regolari?) successo di Gary Marshall che consacrò una giovanissima Julia Roberts come diva del cinema accanto al bello e fascinoso Richard Gere, già noto alla platea femminile per i suoi ruoli altrettanto carismatici di Julian Kay in American gigolo e Zack Mayo in Ufficiale e gentiluomo.
Mentre, ancora una volta, mi ritrovavo sognante difronte alla – direi – oggettiva bellezza della coppia Gere-Roberts ma soprattutto, banalmente forse, di fronte alla favola d’amore fra i due, iniziavo ad interrogarmi, con la coscienza di quarantenne attuale cresciuta a suon di imperativi di indipendenza e autonomia paterni e pregna della vocazione femminista finalmente espressa dalla società, sul perché mai mi faccia ancora sognare questa narrazione di donna che viene salvata dal principe azzurro.
Mi sono poi accorta che in fondo la narrazione non era esattamente questa e che la favola di Vivian Ward era abbastanza rivoluzionaria per i suoi tempi. Dopo l’incontro con Edward, Vivian non torna alla sua vita ma decide di riprendere gli studi per trovare la sua strada: la storia d’amore l’ha traghettata verso la consapevolezza del proprio valore di donna e dell’amore che deve a se stessa per prima.Insomma, a ben guardare, Vivian si sarebbe salvata da sola, anche se Edward non fosse mai tornato a cercarla.
È stato mentre mi trastullavo con simili elucubrazioni che Instagram iniziava a propormi le stories di Chiara Ferragni alla settimana della Haute couture parigina, andata in scena dal 4 al 7 luglio scorsi dopo due anni di semi-stop.
Abbandonata la Roberts sulla scala antincendio della sua abitazione losangelina, mi ritrovavo ancora più sognante a guardare questa italianissima trentacinquenne che con assoluta naturalezza passa dalla canotta col jeans all’abito sartoriale di Schiaparelli e non ha remore a dire ai suoi 27 milioni di followers quanto sia semplicemente “lucky”.
Sicuramente la fortuna nella vita è un ingrediente importante ma prima penso occorrano altri ingredienti, tra cui determinazione e passione. La Ferragni, mi sembra, non manchi di nessuna delle due. Prima ancora, direi, non manca della consapevolezza di sé e del proprio valore che invece mancava a Vivian.
In questo senso, Chiara Ferragni incarna la Pretty woman degli anni Duemila. Non ha bisogno di essere salvata perché ciò che vuole lo ottiene da sola. Non ha bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi ma al massimo di qualcuno con cui – letteralmente – procedere: eccola allora ritratta con le sorelle, col marito, con i figli, con le amiche, con il team di lavoro. Al tempo stesso, a Parigi va da sola perché, appunto, non dipende da qualcuno. Non è però la donna androgina che per affermarsi deve risultare quasi mascolina: è moglie e madre, non solo imprenditrice. È la donna che vuole essere a 360 gradi.
Con la stessa grazia spontanea indossa l’elegantissima mise Dior e l’abito semitrasparente di Mugler, passando per Schiaparelli Balenciaga, Gaultier, The attico. Non è l’abito che la veste ma è lei che lo riempie di personalità, esaltandolo. Al punto che quando pubblica la sua foto seminuda con la didascalia “Mother nature vibes” verrebbe quasi da dire sia già ben vestita così, senza nulla indosso. E se qualcuno prova ad obiettare che “Però è volgare”, a me viene solo da ribattere che volgare sarà il suo modo di guardarla.