Concludiamo la storia della tragedia di Chernobyl, la cui seconda parte è stata pubblicata il 9 agosto scorso.
Alle ore 1:23:45 il reattore nº 4 esplose.
Si verificarono due esplosioni a distanza di pochi secondi; la prima fu una liberazione di vapore surriscaldato ad altissima pressione che sparò in aria il disco di copertura, pesante oltre 1.000 tonnellate, chiamato ‘Elena’, che chiudeva il cilindro ermetico contenente il nocciolo del reattore.
Il disco ricadde verticalmente sull’apertura, lasciando il reattore scoperto. Pochi secondi dopo, i grandi volumo di idrogeno e polvere di grafite ad altissima temperatura liberati dal nocciolo, a contatto con l’aria produssero una seconda esplosione, più potente, che distrusse la copertura dell’edificio del reattore.
Seguì un violento incendio della grafite contenuta nel nocciolo: l’incendio per alcune ore disperse nell’atmosfera una enorme quantità di isotopi radioattivi.
Le esplosioni non furono di tipo nucleare – non si trattò di una reazione a catena incontrollata di fissione nucleare come nelle bombe atomiche – ma furono termochimiche: il surriscaldamento del nocciolo, dovuto all’improvvisa perdita di controllo sulla reazione nucleare, portò al raggiungimento di una temperatura elevatissima che fece arrivare la pressione del vapore dell’impianto di raffreddamento a un livello esplosivo.
Si erano innescate, inoltre, reazioni fra le sostanze chimiche contenute, acqua e metalli, inclusa la scissione dell’acqua in ossigeno e idrogeno per effetto delle temperature raggiunte, che contribuirono a sviluppare grandi volumi di gas.
Dopo l’esplosione nella sala di controllo ci fu la massima confusione; mentre dal soffitto cadevano frammenti e polvere e dai bocchettoni di areazione fuoriusciva una nebbia grigiastra, i dirigenti della sala non compresero subito la natura degli eventi e disorientati e preoccupati cercarono di valutare la situazione sugli schermi.
Si trovarono di fronte ad una serie di spie luminose lampeggianti ed a continui allarmi sonori e vennero presi dal panico.
Il direttore della sala controllo inviò due aspiranti ingegneri, presenti come spettatori, direttamente nella sala reattore per controllare visivamente le condizioni del nocciolo, i due incontrarono l’addetto responsabile di turno, poi il responsabile del reattore 4, e tutti si trovarono sommersi nell’acqua fino alle ginocchia in un ambiente in totale rovina: macerie dappertutto, qualche addetto già privo di sensi, una situazione drammatica nella quale cercarono di prestare qualche soccorso.
La sala del reattore n. 4 era completamente frantumata: il tetto era saltato in aria, una parete era crollata, i serbatoi e le tubazioni dell’acqua di raffreddamento erano squarciati e pericolanti, l’ambiente era solcato dalle scintille provocate dai continui cortocircuiti dei cavi troncati dall’esplosione.
Dalle macerie fumanti della sala reattore saliva verso il cielo una colonna iridescente di luce bianco-azzurra provocata dalla ionizzazione radioattiva dell’aria causata a sua volta dall’emissione nell’atmosfera delle particelle radioattive del nocciolo ormai completamente esposto.
Si cercò di valutare la situazione dall’alto con l’aiuto di una torcia elettrica, e ci si rese conto che la copertura d’acciaio Elena era divelta e inclinata da un lato, i tubi del vapore erano tranciati, le barre di controllo liquefatte e al posto della struttura del reattore c’era un enorme cratere nel cui fondo si trovava il materiale radioattivo del nocciolo, enormi quantità di radiazioni venivano emesse ogni secondo; e i quattro, completamente sconvolti, abbandonarono la sala del reattore e tornarono alla sala di controllo.
Solo una piccola parte degli strumenti di rilevazione a disposizione era in grado di effettuare misure fino a un determinato valore, ma risultarono indisponibili perché chiusi in cassaforte; quelli disponibili arrivavano a un valore molto più basso.
I contatori Geiger della sala di controllo indicavano valori del tutto accettabili, così il vice-capo-ingegnere suppose che il reattore fosse ancora intatto e riferì al direttore della centrale; ma quei valori era solo apparentemente rassicuranti, essendo il fondo scala dei contatori che non erano in grado di visualizzare valori maggiori.
Però qualcuno aveva intuito che il valore effettivo fosse molto più alto.
Immediatamente furono mandati operatori della centrale per effettuare rilevamenti, attrezzati di contatori Geiger al alta efficienza e mascherine chirurgiche.
Uno degli operatori tornò con dei dati sconcertanti: le radiazioni nei pressi del reattore misuravano valori tanto inverosimili che i dirigenti pensavano che fossero gli strumenti di misura a non funzionare correttamente.
In alcune zone, vista la propagazione delle radiazioni a macchia di leopardo, i valori stimati superavano di oltre 5.000 volte quelli riportato dagli strumenti meno efficienti; il valore rilevato nei pressi della centrale era 1.miliardo di volte superiore a quello normale.
A quei valori in 5 ore moriva un essere umano, e molti operatori furono esposti a una dose mortale di radiazioni nell’arco di pochi minuti.
I responsabili del reattore esploso andarono ad aprire a mano le valvole che immettevano acqua per il raffreddamento del reattore, senza alcuna tuta protettiva, consapevoli di esporsi a un rischio che li avrebbe condotti alla morte nel giro di due settimane: furono poi insigniti dell’ “Ordine per il Coraggio di terza classe” per il coraggio dimostrato.
Uno di essi, l’ingegnere esperto Borys Stoliarchuk, presente durante il test, sopravvisse ed è ancora vivo oggi a testimoniare il disastro.
Al grande caos che si era creato nei reparti tecnici della centrale cercarono di far fronte i Vigili del fuoco, i cui vari distaccamenti in zona si mobilitarono nel giro di pochi minuti, e vennero in soccorso anche distaccamenti lontani ai quali fu chiesto aiuto.
Nonostante non fossero particolarmente addestrati per un incendio in una centrale nucleare, fecero del loro meglio per tentare di spegnere gli incendi, rischiando le loro vite in quanto dovettero portarsi proprio sopra i roghi, che tentarono inutilmente di spegnere con le attrezzature tradizionali in dotazione.
Ma insieme ai Vigili del fuoco, contribuirono anche altre categorie, come un gruppo di minatori, i quali, abituati alle alte temperature sotto terra, accettarono subito di introdursi nei cunicoli sotto la centrale esplosa, probabilmente perché non avevano valutato i rischi ai quali andavano incontro.
Nelle ore successive c’erano sull’area due zone ad alta pressione, una a forma di cuneo sull’Europa Centrale e una sul Mediterraneo. Sabato 26 e domenica 27 aprile il vento soffiava verso nord, investendo la Bielorussia e le tre repubbliche baltiche, per girare poi verso nord-ovest, il lunedì successivosu Svezia e Finlandia, e infine verso ovest,
su Polonia, Germania settentrionale, Danimarca, Paesi Bassi, Mare del Nord e Regno Unito.
Da martedì 29 aprile a venerdì 2 maggio un’area depressionaria sul Mediterraneo si spostò a sud, richiamando un flusso d’aria da nord-est su Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Austria e Italia settentrionale, che scivolò poi in parte sull’arco alpino, investendo Svizzera, Francia sud-orientale e Germania meridionale, e in parte l’arco appenninico, investendo pure l’Italia centrale.
Da domenica 4 a martedì 6 maggio, il vento girò verso sud, investendo di nuovo Ucraina, Russia meridionale, Romania, Moldavia, Penisola balcanica, fino alla Grecia e a alla Turchia.
L’emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio 1986.
Il disastro di Cernobyl fu il primo incidente nucleare classificato come livello 7, il massimo livello della scala INES degli incidenti nucleari.
L’istituzione delle Nazioni Unite chiamata UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation, il Comitato scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti) ha condotto per 20 anni una dettagliata ricerca scientifica ed epidemiologica sugli effetti del disastro.
A parte i 57 decessi diretti (solo tanti ne vennero ufficialmente dichiarati dalle autorità russe, nonostante fossero molto di più), l’UNSCEAR ha predetto fino a 6.mila casi di tumori da attribuire all’incidente.
L’UNSCEAR ha infatti scritto: «Fino all’anno 2005, tra i residenti della Bielorussia, la Federazione Russa e l’Ucraina, ci sono stati più di 6.mila casi di tumore alla tiroide in bambini e adolescenti che furono esposti al momento dell’incidente, e più casi sono da aspettarsi nei prossimi decenni. Escludendo questo incremento, non vi è evidenza di ulteriore impatto per la salute pubblica attribuibile all’esposizione di radiazioni due decenni dopo l’incidente. Né vi è evidenza scientifica di un incremento di incidenza di tumori, né del tasso di mortalità, né nell’insorgenza di patologie che potrebbero essere collegate all’esposizione alle radiazioni. L’incidenza di leucemia nella popolazione non sembra elevata. Tuttavia, coloro che furono esposti maggiormente alle radiazioni hanno un rischio più alto di effetti sulla loro salute. La maggioranza della popolazione non dovrebbe comunque soffrire ulteriori serie conseguenze di salute. Molti altri problemi di salute, non direttamente collegabili con l’esposizione alle radiazioni, sono stati riscontrati nella popolazione.»
Il tumore della tiroide, che pure può essere collegato alla esplosione, è generalmente trattabile, e se fatto in maniera appropriata il tasso di sopravvivenza è del 96% nei primi cinque anni, e del 92% dopo 30 anni; in basse a tali indicazioni potrebbero verificarsi fino a circa ulteriori 500 decessi annui.
Desideriamo concludere questo lunga ricostruzione con una considerazione.
Alla luce di tutto quello che abbiamo scritto, con grande angoscia ci chiediamo quale futuro abbiamo scelto per i nostri figli e nipoti.
Quante centinaia di anni ci vorranno per riparare i danni finora da noi generati? Quante centinaia di anni occorreranno per tornare ad energie pulite, come quella idrica prodotta dalle dighe, quella eolica prodotta dalle pale, quella naturale ricavata dal sole, in maniera da poter abbandonare una volta per tutte le centrali inquinanti, a carbone o nucleari, senza però recare eccessivi danni al tenore di vita al quale ci siamo abituati?