Mettiamola così: per la Gran Bretagna la Brexit è forse stata una grande sciagura, dall’inizio dell’anno pare che le sue esportazioni verso i paesi dell’Ue siano crollate e il Pil si sia ridotto per la prima volta dal 2012.
Dal 1° gennaio 2021, infatti, per effetto della Brexit la Gran Bretagna per i paesi dell’UE è trattata come un “paese terzo”, quindi non gode più dei vantaggi e delle agevolazioni degli altri paesi membri dal punto di vista doganale, di transito di persone, di autoveicoli, e via dicendo.
Vediamo cosa prevede l’accordo raggiunto in base all’art. 50 del Trattato sull’U.E.
Preliminarmente c’è da ricordare che l’accordo di recesso venne approvato il 17 ottobre 2017, entrò in vigore il 1° febbraio 2020 e prevede, tra l’altro, anche la soluzione della spinosa questione dell’ Irlanda del Nord che non ha mai aderito all’uscita dall’UE, una pietra d’inciampo non indifferente.
L’accordo di recesso prevede molte cose, ad iniziare dalla tutela delle scelte di vita di oltre 4.milioni di cittadini dei paesi UE che sono nel Regno Unito, e di oltre 1.milione di cittadini britannici che sono nei Paesi EU, ai quali deve essere garantito il diritto di soggiorno e la possibilità di dare il loro contributo alle rispettive comunità.
Ci sono poi le disposizioni pratiche della separazione, come, ad esempio, consentire che le merci immesse sul mercato prima della separazione giungano a destinazione, la tutela dei diritti della proprietà intellettuale, la cooperazione in materia giudiziaria, penale e amministrativa, l’utilizzo di dati e informazioni scambiati prima della transizione, le questioni legate all’ Euratom (la Comunità Europea dell’Energia Atomica della quale anche la Gran Bretagna fa parte) e tante altre questioni come la risoluzione delle controversie che verranno fuori.
Insomma una uscita non facile, provocata esclusivamente dalla Gran Bretagna, sempre altalenante tra stare e non stare nell’UE.
Ovviamente su questo argomento non è solo la Gran Bretagna ad essere altalenante, pure altri Paesi lo sono stati e lo sono ancora, come ad esempio il nostro; ma il paragone tra Italia e Gran Bretagna regge poco perché nella nostra Costituzione c’è una norma che non consente il referendum su questo tema; infatti, l’art. 75 della nostra Carta prevede che “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Ma vi sono due altri validi motivi per i quali all’Italia non conviene uscire dall’UE e dall’Euro: il primo è che siamo il paese con un debito pubblico enorme, e che solo grazie all’UE negli ultimi anni non è cresciuto indiscriminatamente come in passato; l’altro è la ferma volontà del Presidente Mattarella, ma chiunque al suo posto l’avrebbe fatto, di evitare che anche lontanamente si possa pensare di fare un passo in tal senso, come prima del varo del Governo Conte-1 pensava di fare Paolo Savona, allora Ministro designato, che Mattarella non accettò.
Per tornare all’argomento della Brexit, probabilmente aveva ragione il Presidente francese Charles De Gaulle il quale, nell’anno 1963, spiegava quanto fosse problematica l’entrata della Gran Bretagna nella CEE, l’antenata dell’UE, perché sapeva come essa fosse “insulare, orientata verso il mare, legata attraverso i propri scambi commerciali, i suoi mercati di riferimento, i suoi approvvigionamenti di merci a paesi tra i più diversi, e tra i più lontani dall’Europa”.
Infatti tutti i passaggi tramite i quali la Gran Bretagna avrebbe dovuto entrare nella CEE, poi UE, sono stati problematici.
Nel 1957 nasceva, col Trattato di Roma, la Comunità Economica Europea/CEE, che univa all’Italia -promotrice di quel trattato grazie ad Altiero Spinelli e ai confinati di Ventotene- anche Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, e Paesi Bassi.
La prima domanda di adesione della Gran Bretagna venne respinta proprio per il veto di De Gaulle del 1963.
Nell’ottobre 1971 il Parlamento inglese approvò una nuova richiesta di adesione alla CEE con una votazione quasi plebiscitaria, segno che i cittadini britannici sembrava avessero piacere e interesse a far parte della Comunità, e nell’anno 1973 la richiesta venne accettata insieme a quelle di Danimarca e Irlanda.
Ma, dopo appena due anni, nel 1975 in Gran Bretagna si tenne un primo referendum, promosso dal Partito Laburista, sulla permanenza del paese nella Comunità, con il quale venne confermata la volontà di rimanere: ma già il fatto di indire un referendum fa comprendere come all’interno del paese ci fosse chi voleva uscirsene.
La questione dell’uscita dall’UE venne riproposta negli anni 2012-2014 dal Leader conservatore Cameron il quale, per consolidare la propria posizione, indebolì il suo partito, favorendo, nel 2014, alle elezioni per il parlamento europeo, la clamorosa affermazione del Partito indipendentista del Regno Unito (UKIP) il quale divenne il primo partito britannico con il 25,49% di voti: non era mai capitato, in 108 anni di storia inglese, che un partito diverso da quello dei Conservatori o dei Laburisti arrivasse primo ad una elezione nazionale, i conservatori giunsero terzi; Cameron si era data, come si dice, la zappa sui piedi.
La cosa strana, però, avvenne altri due anni dopo: nel 2016, lo stesso Premier Conservatore Cameron si schierò per rimanere in Europa e invitò il popolo a votare in tal senso: un atto di assoluta incoerenza.
Alla fine la controversa questione di rimanere o uscire dall’Unione Europea, dopo cinquant’anni si è risolta con la sua uscita con decorrenza primo gennaio 2021, e dopo oltre tre anni di dura trattativa con il Governo dell’UE, il quale si è impuntato contro i diktat dell’Inghilterra, che avrebbe voluto spuntare condizioni di favore per la sua uscita, ma non l’ha avuta vinta.
Ma è stata “vera gloria” per il Regno Unito?
Sembra proprio di no, per una serie di motivi politici ma soprattutto economici.
I motivi politici sono legati alla volontà di larga parte della popolazione sia per il flop delle trattative, sia per la diffusa volontà di rimanere nella UE (si parla del 48%), anche perché si sono probabilmente resi conto che la “Brexit” è un danno per la loro economia, e già emergono le prime avvisaglie.
Ci sono anche motivi politico-economici, come, ad esempio, la possibilità per i paesi dell’UE di andare a pesca nel canale della Manica e negli altri mari che circondano la Gran Bretagna, molto pescosi e appetibili dalle flotte dei pescherecci europei; la Gran Bretagna ha dovuto cedere alle pressioni dell’UE, ovviamente a malincuore, e non tanto per il valore intrinseco del pesce pescato, ma per il fatto di aver dovuto acconsentire che estranei andassero a pesca nei “suoi” mari, un boccone amaro difficilmente digeribile.
Quindi l’accordo per la “Brexit” ha comportato non solo oneri finanziari (leggasi penali) per la Gran Bretagna, ma anche la rinegoziazione di termini e diritti assolutamente scontati durante la sua permanenza nell’UE.
Un esempio elementare: fino al 31 dicembre 2020 gli inglesi potevano usare la loro patente di guida in tutti i paesi dell’UE; dal 1° gennaio di quest’anno la loro patente non è più riconosciuta, per cui si è avviata la trattativa per il riconoscimento: ma fino a quando non sarà sottoscritto l’accordo, gli automobilisti inglesi non potranno guidare nei paesi dell’UE, e saranno costretti ad andare a piedi, che siano turisti o autotrasportatori.
Quindi i grattacapi che Boris Jhonson si trova ora a dover affrontare sono tanti.
E tra essi vi sono anche questioni territoriali, come quelle di Gibilterra e Cipro (dove c’è una colonia Britannica), zone sulle quali la Gran Bretagna esercita un suo potere che potrebbe essere messo in discussione da parte degli altri Paesi della UE.
E c’è anche l’altro problema spinoso dell’Irlanda, che non intende uscire dall’UE, e si rischia di giungere alla creazione di una frontiera che la separi dal Regno Unito del quale fa parte; si corre anche il rischio che possa riavviarsi quell’irredentismo Nord-Irlandese il quale, all’interno della stessa Irlanda, esplose nei decenni scorsi e provocò migliaia di morti.
Frattanto, come anticipato domenica mattina in una trasmissione di Radio-24, le esportazioni britanniche di merci verso i paesi UE sono ridotte del 68%, un vero e proprio crollo, mentre quelle italiane alla Gran Bretagna solo del 5%.
Qualcuno, anche all’interno della stessa Gran Bretagna, comincia a chiedersi se sia valsa la pena di uscire dall’UE: è probabile che tra qualche anno continuerà l’altalena e la Gran Bretagna chiederà di rientrare.