Con “Il sonno della ragione genera mostri” Goya mette in scena un pover’uomo, forse no scrittore maledetto (o maledetto scrittore fate voi) che, all’improvviso, forse strafatto, chissà, si abbandona, sfinito, al Sonno. E, appena si addormenta, come se non aspettavano altro, i “mostri”, paure inconsce, iniziano a ballargli attorno.

La percezione dell’Europa, in un certo senso, va, più o meno nello stesso modo. Ci sono conquiste da promuovere ed espandere – dalla libera circolazione di individui e beni alla semplice possibilità di vivere in pace – che molte volte viaggiano sul filo della Ragione e, invece, dall’altro lato, paure ancestrali di fame e carestia e invasioni che esprimono la Pancia e che se ne stanno, come nascoste, pronte all’agguato.

Non dico che fa male ragionare di Pancia, perché questa è fatta per inghiottire, ingolosirsi e avere fame, dico semmai che Pancia e Ragione possono stare insieme.

Quello che è successo e sta succedendo con Brexit può valere come esempio. Nel 2016, i sudditi di Sua Maestà britannica, il 56% per esser precisi, votano per il “LEAVE” dall’Europa e da tutti i suoi corollari, mandando alle ortiche quasi trent’anni di politica estera UK fondata sulla ricerca e sul mantenimento dell’equilibrio tra gli stati europei.

Le ragioni del LEAVE traggono fondamento da un lato, in una sorta di orgoglio – tipically british – di voler rimanere “indipendenti e sovrani” e non condizionati in alcun modo da un qualsivoglia soggetto esterno e si fanno forza sulla tradizione di una potenza che per secoli ha dominato, governato e amministrato buona parte del mondo. Dall’altro lato, il LEAVE è stato alimentato dalla campagna di denigrazione e demonizzazione dell’Unione Europea portata avanti dall’UKIP, o meglio dal suo leader Nigel Farage, e culminata nel Referendum che l’UKIP stesso ha portato alle urne.

Quanto una scelta di pancia possa pesare, a discapito degli interessi nazionali possiamo vederlo oggi a due anni quasi dal risultato del referendum. Da mesi il governo britannico non ha stabilità, i negoziati che si sono susseguiti, fatti di avanti e indietro con Bruxelles non hanno fatto altro che mettere in luce le spaccature all’interno stesso del Paese: tra chi vuole uscire e basta e chi, invece, per motivi concreti, in Europa ci vuole restare.

Spaccature che si allargano, poi, se pensiamo che, facendo due conti, un uscita UK dall’Europa senza un negoziato potrebbe portare, sembra, a una perdita di 8 punti percentuali di PIL. Senza contare comunque che cittadini e imprese del regno unito sicuramente non potranno viaggiare o comunque fare affari come prima in Europa. Na bella botta comunque non c’è che dire. Anche se sei un Paese con una storia imperiale.

Adesso siamo in attesa: ci sono diverse opzioni sul tavolo che potrebbero esser portate avanti. La migliore forse, è la creazione di un accordo di libero scambio che tenga in vita l’adesione all’unione doganale e quindi consenta sempre libera circolazione di persone, merci e capitali. In questo modo, però, il Regno Unito, pur continuando a godere di alcuni vantaggi tipici dell’UE non avrebbe più nessuna voce in capitolo nelle Istituzioni Europee: non avrebbe più rappresentanti ma semmai potrà esser chiamato, in casi specifici, come paese dell’area di libero scambio.

Ma il tema cruciale di tutta la vicenda è uno: quando gli interessi del Paese vengono in qualche modo messi in secondo piano per seguire paure, voci di Pancia è un po’ come se arrivasse il sonno della ragione. Quel momento in cui si crea Ammuina e tutto sembra il contrario di tutto.

Ad esempio uscire dall’Europa, per i Paesi che hanno contribuito a fondarla, oggi, può configurarsi come la scelta più contraddittoria possibile rispetto agli interessi nazionali.

Il Regno Unito, ad esempio, ha scelto “LEAVE” per esser maggiormente “sovrano” e indipendente rispetto a Bruxelles: il risultato, come ha anche scritto Sergio Fabbrini qualche giorno fa, sarà che si dovrà accordare per forza con l’UE e, così facendo, conterà ancora meno di prima perché non sarà più paese membro. Una barzelletta praticamente.

La Pancia si ci deve stare: da la giusta misura di quanta “fame” si possa avere, della necessità, comunque, di dare risposte al malcontento e alle paure dei cittadini elettori. Ma da sola non basta perché non si va da nessuna parte. O meglio si va da qualche parte ma poi si sbatte contro un muro.

La scelta di essere in Europa, non è come chiedersi dove andare a cena stasera e con chi ma è, un tantinello, più complessa. Fa parte, forse, di quella serie di domande che rientrano tutte nella Grande Domanda morettiana del “Che faccio vengo? O no? Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo?”

Siamo talmente connessi agli altri, in Europa, che ci risulta poco plausibile, di Ragione, parlare di uscire. Avremmo meno peso e saremo meno forti come Paese e come economia.

Questo non vuol dire che sia tutto buon e lucente, anzi. Ci sono delle cose che non funzionano e funzionano poco ma, per questo, occorre rimboccarsi le maniche e lavorare insieme.

Soprattutto noi che siamo Paese fondatore dell’Europa per come la conosciamo oggi.

Soprattutto adesso che l’Unione Europea, grazie alla Brexit, è più compatta rispetto al recente passato.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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