E ora che, finalmente, la Brexit, agognata e temuta, si è conclusa, vediamo un poco cosa succede e cosa cambia.
Il 1° febbraio 2020 è stato festeggiato dal popolo britannico come il brexit-day, ma le manifestazioni sono state abbastanza sobrie e contenute, hanno dato l’impressione di essere quasi forzate: sinceramente, dopo gli anni di travaglio per giungere a tanto, questa tiepida soddisfazione non può non lasciare perplessi.
Intanto, qualche considerazione preliminare è opportuna.
Brexit è un acronimo recentemente coniato allorquando il popolo del Regno Unito decise, con un referendum improvvido, di uscire dall’Unione Europea alla quale aveva aderito sin dall’inizio.
Anzi già in precedenza, nel 1941, prima della fine del secondo conflitto mondiale, il Regno Unito aveva aderito all’iniziativa presa dal Presidente Usa, Franklin Rooswelt e dal Primo Ministro Britannico, Winston Churchill, sottoscrivendo la Carta Atlantica, per poi entrare, nel 1949, nel Patto Atlantico.
i due paesi si erano posto il problema di come evitare che le tragedie e i danni provocati dai primi due tragici conflitti mondiali potessero in futuro ripetersi e pensarono che ciò poteva avvenire solo stipulando intese economiche e commerciali tra tutti gli paesi europei, che erano stati origine di quei due tragici eventi dai quali erano venuti fuori dissanguati economicamente e socialmente, e le cui conseguenze avrebbe portato ulteriori sofferenze che si erano ripercosse su molti paesi dell’intero mondo.
Dal Patto Atlantico all’Unione Europea il passo non fu né breve né indolore; i paesi che aderirono lo fecero quasi costretti da considerazioni che, se da un lato non potevano essere sottovalutate, dall’altro venivano viste come una limitazione della autonomia di ciascuno di essi. Per quei paesi che per secoli si erano sentiti forti, potenti e liberi, non era facile accettare di buon grado una limitazione, anche minima, di sovranità e autonomia.
La stessa costituzione della Unione Europea, per come fu fatta, risentì di queste spinte, tant’è che, come più volte è stato evidenziato, tale unione non fu una creatura politica, come quella statunitense, ma solo economica e monetaria il che, se da un lato ha portato grandi benefici, specialmente ai paesi più deboli dal punto di vista economico e sociale e politicamente instabili, come il nostro, non ha mai fatto superare il senso di stizza nei confronti delle regole che l’Unione ha imposto per contenere debiti pubblici, bilanci falsati, furberie amministrative alle quali tutti hanno fatto ricorso.
In particolare i rapporti tra il Regno Unito e l’Europa sono sempre stati caratterizzati da incertezze e ripensamenti anche perché il popolo britannico, favorevole al mercato unico europeo, non ha mai sopportato ingerenze nella sua politica interna; in Gran Bretagna per decenni c’è stata resistenza nei confronti dell’UE, particolarmente all’epoca di Margaret Thatcher (1979-1990), la lady di ferro.
E sebbene il suo successore, Lord John Major, avesse firmato nel 1992 il trattato di Maastricht, la Gran Bretagna è sempre stato un membro piuttosto “tiepido” e mai sono cessate le pressioni interne degli antieuropeisti, pure con i successivi governi alcuni dei quali, in verità, anche se formalmente manifestassero convinto europeismo, si sono sempre mantenuti piuttosto defilati, tant’è che è diventata convinzione comune che a guidare l’UE in tutti questi anni siano sempre stati la Germania e la Francia: mai si è parlato della Gran Bretagna, nonostante il suo peso economico.
Insomma al Regno Unito i vincoli dell’EU sono sempre stati stretti, e più volte sono stati rinegoziati, per ultimo lo fece nel febbraio 2016 l’allora Premier David Cameron il quale, al fine di avere maggior peso nelle trattative, pensò bene di indire un referendum popolare sulla permanenza del paese nell’UE, un passo politico certamente azzardato del quale lo stesso Cameron non aveva previsto le conseguenze; fra l’altro quel referendum non poteva essere considerato corretto, giacché non è con un referendum che un paese membro può deliberare l’uscita dalla Unione, tant’è che, dopo il referendum, il Regno Unito ha dovuto approvare nel marzo 2017 una apposita legge in tal senso, la “European Union Act 2017”.
Ormai il pasticcio era stato fatto, e, nonostante le tensioni interne, derivanti anche dalla volontà di una parte del paese di rimanere nell’UE, sarebbe stato difficile cambiare rotta, pure se non va dimenticato che il Regno Unito è composto da quattro nazioni, l’Inghilterra, parte preponderante, la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord, e tra esse sono sempre esistite tensioni, talvolta esplosive e cruente, e che le altre nazioni non hanno mai di buon grado accettato il referendum antieuropeista di Cameron, e oggi brigano per staccarsi dalla Inghilterra e rientrare nell’Unione.
Ma anche nella stessa Inghilterra, dopo i risultati del referendum di Cameron, si è costituito un ampio fronte europeista del quale fa parte la metà dei conservatori di Cameron, unitamente ai laburisti, ai socialdemocratici e ai verdi, uniti al Galles e alla Scozia. E se si pensa che le posizioni dei favorevoli a restare e quelle che hanno sostenuto la Brexit hanno avuto momenti di grande tensione, uno dei quali sfociato nell’assassinio, nel giugno 2016, da parte di un accanito antieuropeista, della deputata Laburista Jo Cox, fervente europeista, si comprende come la questione, in un senso e nell’altro, sia sentita.
D’altronde, il referendum fu vinto con uno scarto minimo di voti: i favorevoli alla Brexit l’ebbero vinta con il 51,9%, i contrari totalizzarono il 48,1%, quindi la decisione fu tutt’altro che plebiscitaria, circa la metà della popolazione aveva deciso di restare; il che, unito alle tensioni esistenti tra i vari paesi, aggrava il quadro.
Comunque ora il Regno Unito non fa più parte della UE, e per la sua uscita ci saranno ripercussioni sia all’interno dello stesso, sia nella Unione Europea, che da qualche giorno sarà meno unita e certamente più piccola, con 73 parlamentari e 66.milioni di cittadini in meno (ridotti a 446.milioni), ma gli effetti del cambiamento non saranno immediati in quanto è ancora lungo l’iter dell’ “exit” e ci saranno ancora lunghe ed estenuanti trattative.
Nel Regno Unito risiedono 3,5 milioni di cittadini dei Paesi dell’UE, dei quali circa 700.mila quelli italiani; per contro i britannici che risiedono nei paesi dell’UE sono circa 1,2.milioni, e l’accordo prevede che essi manterranno gli attuali diritti fino a giugno 2021, dopo cesserà anche la libertà di movimento, ed entreranno in vigore nuove regole ancora da scrivere; le frontiere saranno libere fino al 31.12.2020, dopo ricompariranno le barriere doganali, con ricadute su trasporti, macchinari, prodotti elettronici, tessili, d’arredamento, agroalimentari e materie prime.
Qualche considerazione a parte va fatta per il lavoro: è stata istituita una piattaforma, la “Settlement Scheme” alla quale i lavoratori stranieri debbono iscriversi se vogliono continuare a lavorare nel Regno Unito: finora l’80% delle iscrizioni è stata autorizzata, per il restante 20% non si sa cosa avverrà.
Per chi vorrà trasferirsi nel Regno Unito vi sono prospettive non rosee; la legge inglese non prevede limiti a chi ha uno stipendio minimo di 30.mila euro annui, per i non specializzati l’ingresso sarà certamente difficile.
In estrema sintesi vediamo cosa succederà nei prossimi mesi.
Per Passaporti e Visti, per tutto il 2020 non cambierà nulla. I turisti italiani che intendono visitare il Regno Unito (sono milioni ogni anno) potranno farlo senza alcun problema, carta d’identità alla mano. Dal 2021 invece il Regno Unito sarà a tutti gli effetti un Paese extracomunitario, alla stregua di Usa o Giappone. Chi vorrà andare in Gran Bretagna dovrà dotarsi di passaporto e dovrà avere anche un visto turistico.
Gli italiani che risiedono in Gran Bretagna avranno tempo fino al 30 giugno del 2021 per iscriversi al “Settlement Scheme”, per essere autorizzati a restare nel Regno Unito e mantenere tutti i diritti garantiti prima della Brexit.
Per l’assistenza sanitaria chi risiede nel Regno Unito da più di 5 anni avrà diritto al Settle Status, vale a dire alla residenza permanente, che garantisce l’accesso alla sanità pubblica e alla sicurezza sociale. Chi invece vive nel Regno Unito da meno tempo riceverà un permesso temporaneo.
Per i nuovi arrivi, chi godrà di un permesso temporaneo, una volta trascorsi i 5 anni necessari, potrà richiedere la residenza permanente. Lo stesso discorso vale per chi arriverà Oltremanica entro il 31 dicembre 2020.
Per il lavoro tutto resta invariato fino al 31.12.2020. Non si sa dopo cosa succederà. Il governo britannico favorirà l’immigrazione di lavoratori qualificati, con stipendi di almeno 30.mila sterline l’anno. Tutti gli altri (camerieri, baristi, commessi, etc.) per poter risiedere dovranno avere un contratto di lavoro al momento della partenza.
Per l’Erasmus (il programma che per decenni ha consentito il libero scambio di studenti all’interno dei paesi dell’UE) sembra che fino al 31.12.2020 non cambierà nulla, ma il tutto dipenderà dalle intese che saranno negoziate nei mesi futuri.
Anche gli studi universitari dei nostri studenti nel Regno Unito potrebbero subire ripercussioni pesanti perché le tasse universitarie potrebbero lievitare: si parla di un aumento da 9.mila a 10.mila sterline l’anno, e fino a 38.mila sterline per le alte specializzazioni.
Per Imprese e Commercio, le esportazioni italiane valgono circa 3,5 miliardi, e circa il 30% è costituito da prodotti IGP (indicazione geografica protetta): se mancherà un accordo commerciale tra Ue e Regno Unito, anche i nostri prodotti potrebbero subire dazi elevati.