Un tempo, grandi artisti, pittori e scultori, si misuravano e manifestavano la propria maestria con imponenti rappresentazioni della sacralità. E le Chiese, ovviamente, di questo sono rappresentazione fisica e reale.
Ecco perché quando ancora parlo con Andrej Dubinin dei suoi primi anni a Cava, mi sembra di viaggiare indietro nel tempo, almeno a cavallo tra rinascimento e l’epoca successiva, in cui il principale committente era l’ecclesia e l’artista realizzava appunto su commissione un’opera che tutto il popolo ammirava, come grande esperienza di entertainment pubblico. Ho conosciuto Andrej una decina di anni fa, lavorando per una sua mostra organizzata a Roma (“I dodici Apostoli tra fisicità e misticismo”) nel Chiostro della Basilica dei Santi Apostoli, dove tra l’altro, sono state conservate per alcuni anni le spoglie di Michelangelo. All’epoca ero già rimasto colpito dalla sua rappresentazione: un connubio di realismo russo, a tratti quasi freddo, e di culto, sapiente, delle espressione di realtà dei grandi maestri del nostro Rinascimento. Ma soprattutto, in quell’occasione, non avrei mai immaginato di pensare, oggi, a tutto questo quando alzo gli occhi per ammirare l’affresco principale della Basilica di San Francesco di Cava.
Andrej è bielorusso (Repubblica di Belarus, detta anche “russia bianca”, la più vicina alla Russia tra i satelliti dell’ex URSS in termini culturali, fisici e anche politici) e cresce negli anni del comunismo (nel suo racconto di quegli anni ritrovo frammenti di “Arcipelago Gulag”) di cui ne respira e vive la pesantezza: suo nonno, semplice operaio delle ferrovie tra l’altro comunista, viene fucilato nel 1937 in pieno Terrore Staliniano. Da giovane artista, studia all’Accademia di Belle Arti dove si appassiona all’arte, e in particolare alla pittura, italiana. Una passione che lo porta a iniziare i suoi viaggi, a sprazzi, nel nostro Bel Paese. Piano piano impara due cose dell’Italia: la ricerca del piacere di “vivere bene” che si manifesta nella cultura, nell’arte, nel cibo e, in secundis, il “grande cuore” degli italiani nel voler accogliere e condividere. L’incrocio clou nasce nel 2008 quando a Cava si avvia il grande fermento per la ricostruzione della Basilica polverizzata dal terribile terremoto dell’Ottanta che non ho visto ma che mi fa paura dai soli racconti di genitori, nonni, zii, parenti.
La Chiesa, oltre a solide fondamenta ricostruite su disegni quasi a memoria di quella che c’era un tempo, aveva bisogno di un artista, di un pittore capace di coniugare antico e moderno e darle uno splendore celebrativo capace di suggestionare ed emozionare il popolo cavese. Nasce allora la mia idea di portare Dubinin a Cava. Fargli vedere la Chiesa, in finitura, e capire se la fosse sentita di assumersi l’arduo compito. Padre Gigino, ideatore e animatore della ricostruzione, ne rimane colpito e decide di coinvolgerlo, siamo nell’agosto del 2008, nel grande cantiere. Il pittore si trova subito davanti due sfide: realizzare l’affresco centrale della chiesa, imponente da dominare tutta la basilica, e correre perché il cantiere di lì a poco, per andare incontro all’inaugurazione, doveva esser smontato. Tra le immagini, di quei giorni, ne ricordo una: andavo a trovare Dubin e sua moglie Natalia, che lo aiutava, salendo tutti i diciotto metri di altezza (fangannela alle vertigini!) e, scena d’altri tempi, trovavo lui disteso a dipingere con la faccia a pochi centimetri dalla parete del soffitto.
Così è nato l’affresco che ci tiene oggi col naso all’insù. Si tratta de “L’Immacolata Concezione” del pittore spagnolo Francisco Zurbaran (1598-1664) la cui copia su tela era sul soffitto della basilica ante terremoto. Padre Gigino, i primi giorni, gli da una stampa a colori e Andrej “s mett ca cap e cu pensier” e per riprodurla adotta la tecnica antica delle “quadrettature”. Ripensandoci, Andrej mi dice che la prova grossa da superare era non tanto riprodurre l’opera di Zumbaran quanto invece ricrearla in modo coerente con la maestosità dell’architettura di stampo bramantesco della Basilica e soprattutto fare in modo che essa fosse, a tutti gli effetti, centrale e rilevante tanto da attirare il primo sguardo e affascinare, sin dall’ingresso, quelli che entravano in Chiesa.
Un lavoro d’altri tempi (imponente, aggiunto, dato che parliamo di 10 x 5 metri) anche perché, se non hai testa, mano e cuore sensibile ed empatico, non lo fai nemmeno con i droni. O meglio lo fai pure ma non con l’emozione che ti da quando lo guardi per la prima volta. Ma la pittura di Dubin (Andrej ha realizzato altre opere per il Convento ma ha anche lavorato alla Badia di Cava in occasione del Millennio) non ti colpisce solo per la combine particolare tra realismo russo e rinascimento italiano. Ti colpisce e ti rimane perché dentro ci sta molta Cava. Nelle pause che faceva, mentre lavorava a San Francesco, Andrej girava per la città e i cavesi incuriositi lo fermavano gli facevano domande, lo volevano conoscere. “U pittor” oppure “U russ” lo chiamavano e chiamano ancora oggi.
Tutte immagini, volti, colori, paesaggi, i “zeppl”, che inconsciamente entrano nel suo immaginario. Entrano giorno dopo giorno nel suo modo di dipingere, nelle cose che dipinge, dentro l’affresco, dentro la Basilica, a Cava.
Parlare con lui, ancora oggi, non è solo rivivere quegli anni. Perché ci serve a poco. Ma è affermare con forza un pezzo di storia e di cultura della città, dei luoghi in cui sono cresciuto, che ti sanno accogliere e dare colore se lo sai ovviamente leggere e mescolare bene. Anche se vieni da un posto un tantino lontano.