50 anni fa, le donne che hanno fatto sbarcare l’uomo sulla Luna
Erano almeno 600 milioni di persone in tutto il mondo quel 20 luglio 1969 davanti alla tv a guardare in diretta l’allunaggio. Walter Cronkite, uno dei più stimati giornalisti dell’epoca, rimase seduto davanti alle telecamere dell’emittente americana CBS per 27 delle 30 ore di durata della trasmissione.
Nel momento in cui l’astronauta Neil Armstrong poggiò piede sulla Luna, Cronkite Cronkite fu sopraffatto dall’emozione e riuscì solo a dire: “Man on the moon!…Oh, boy…Whew, boy!” (“L’uomo è sulla Luna! O, cavolo… Wow, cavolo!”). In Italia i conduttori Rai annunciarono con circa un minuto di anticipo il momento in cui il Modulo Lunare dell’Apollo 11 atterrò sulla Luna. Tito Stagno, uno dei più famosi giornalisti televisivi del tempo, interpretò male le comunicazioni degli astronauti e disse “Ha toccato!” anticipando di 56 secondi il momento effettivo in cui il Modulo toccò il suolo lunare. Ruggero Orlando, corrispondente Rai dal centro della NASA a Houston, Texas, gli rispose “no, non ha toccato” e fra i due iniziò un breve dibattito che coprì le parole degli astronauti.
Non molti, però, sanno che i primi passi di Neil Armstrong sulla Luna si realizzarono grazie a una donna. Margaret Heafield Hamilton fu l’informatica che permise lo sviluppo del software dell’Apollo Guidance Computer, cioè il computer di bordo dell’Apollo della NASA, che aveva il compito di intervenire, in caso di problemi, durante le manovre di allunaggio e decollo. Non ancora trentenne e con una figlia piccola che la seguiva in laboratorio, lavorò in un settore dove le donne erano solitamente escluse e riuscì a guadagnarsi la stima dei colleghi grazie al suo lavoro. Fu proprio il software da lei realizzato che riuscì a salvare la missione Apollo 11 quando, poco prima del touchdown del lander, scattarono diversi allarmi annunciando il rischio di sovraccarico del computer di bordo, con il pericolo di compromettere l’atterraggio.
Un’altra donna che ha legato il suo nome a quella giornata unica nella storia dell’umanità è Frances “Poppy” Northcutt, che a soli 25 anni il primo ingegnere donna nella Mission Control della NASA, che ha pure dato il nome a un cratere lunare (appunto Poppy) e diede un importante contributo nel riportare a terra gli astronauti dell’Apollo 13 dopo l’incidente del 1970. “Non conoscevo altre donne nella mia stessa posizione – ha dichiarato Poppy in una recente intervista – sono sicura ce ne fossero da qualche parte, ma nel reparto tecnico non ne ho viste. Se è stato più difficile essere in questo settore perché ero donna? Sì, dovevo lavorare molto più duramente degli uomini per provare il mio valore. Ai tempi nuotavo in un mare di sessismo”.
La Northcutt iniziò a lavorare come “calcolatrice”: alla maggior parte delle donne assunte dalla NASA veniva infatti chiesto di fare e rifare calcoli di ogni tipo, cosicché gli altri ingegneri, fisici e matematici (uomini) potessero dedicarsi ad altro. C’erano anche donne afroamericane che si occupavano dei calcoli: venivano chiamate “coloured computers” (computer di colore) che lavoravano, pranzavano e usavano servizi igienici diversi da quelli delle colleghe bianche.
Insomma, fu più facile mandare un uomo sulla Luna che accettare che le donne potessero svolgere le stesse mansioni dei colleghi uomini e assurgere al ruolo di scienziate a tutti gli effetti e per molto tempo si è pensato che l’esplorazione spaziale degli anni Sessanta e Settanta fosse una storia di successi raggiunti solo da uomini statunitensi e bianchi. Ma così non era. Su impulso del presidente John Kennedy e del suo vice Lyndon Johnson, la NASA adottò il principio dell’affermative action: una via preferenziale per assumere persone appartenenti a minoranze – donne e non bianchi – allo scopo di promuovere la loro partecipazione alla vita economica e sociale del paese. Il programma spaziale diventò così anche un mezzo per portare cambiamenti sociali ed economici negli stati più poveri del sud degli Stati Uniti.