Il 31 gennaio del 1945 con il Paese diviso e il nord sottoposto all’occupazione tedesca il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi, su proposta di Alcide De Gasperi (DC) e Palmiro Togliatti (PCI), emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23: “Estensione alle donne del diritto di voto”).
Potevano votare le donne con più di 21 anni. Il governo che varò la decisione era composto da Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Liberale e Democrazia del Lavoro. Il suffragio femminile aveva però dei limiti, elencati all’articolo 3 del Decreto: erano escluse dal voto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”. Norma che verrà in seguito abrogata nel 1947.
Anche il Vaticano si dimostrò favorevole al suffragio femminile. Il 21 ottobre 1945 papa Pio XII disse: “Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione”.
Deboli, emotive, votate alla cura della famiglia, oppure, facilmente manovrabili e influenzabili dalla Chiesa (secondo il timore dei partiti di sinistra). Questi e tanti altri erano i motivi addotti per anni per escludere le donne dalla vita politica e dal diritto di voto. Da allora in poi le porte della politica italiana si apriranno per tante donne il cui contributo sarà fondamentale: nella Carta Costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio 1948 entra il principio di parità tra uomo e donna come cita l’art. 3 nel primo comma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.