Continua il braccio di ferro tra la Unione Europea e il nostro governo sui criteri di assegnazione delle aree balneari nel nostro paese.
Una questione non semplice da risolvere, che vede personalmente coinvolta la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni la quale, nel corso della campagna elettorale, si era impegnata formalmente a sostenere gli attuali gestori degli stabilimenti balneari i quali sono da anni in fibrillazione temendo di perdere da un anno all’altro le loro concessioni a causa della applicazione della direttiva Bolkestein, (direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno che si applica a tutte le concessioni di occupazione del demanio marittimo).
Una ricerca di Nomisma su dati del demanio, aggiornata a febbraio 2023, fa chiarezza su questa questione al centro del dibattito politico: su 26.313 concessioni, 15.414 sono a uso turistico-ricreativo e negli ultimi due anni il 60% ha fatto investimenti.
Dall’indagine effettuata da Nomisma si stima un fatturato medio di circa 260.000€ ad azienda, generato per il 50% dai ‘servizi tradizionali’: spiaggia, parcheggio e noleggio attrezzature.
Bar, ristorazione e servi aggiuntivi arrivano a contribuire con una quota addizionale intorno al 48% del totale.
Se numericamente le concessioni turistico-ricreative sono prevalenti, (58,6% del totale), dal punto di vista della superficie sono assolutamente residuali occupando appena lo 0,50% dell’area demaniale complessiva.
Un altro elemento che qualifica le concessioni ad uso turistico-ricreativo è la ridotta dimensione della superficie occupata: il 72,3% non supera i 3.000 mq.
Le imprese balneari sono soltanto una parte delle aziende che utilizzano il demanio ad uso turistico-ricreativo.
Ci sono circa 6.600 altre imprese (marittime, lacuali e fluviali) che impiegano, nei mesi di alta stagione, 60mila addetti (43.mila dei quali dipendenti).
L’impresa balneare per otto imprenditori su dieci (tra titolari e soci) rappresenta la principale fonte di reddito della famiglia.
Altra fonte riporta che nel litorale italiano, lungo 7.466 km, le coste basse sono pari a 3.951 km (52,9%), per il 42,5% interessate dal fenomeno erosivo (fonte Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).
Per otto imprenditori su dieci (tra titolari e soci) l’impresa balneare rappresenta la principale fonte di reddito della famiglia.
I titolari delle concessioni sono in prevalenza nuclei familiari, ma vi sono pure importanti società, come quella dello stabilimento balneare Twiga di Forte dei Marmi, che si dice sia di proprietà di Flavio Briatore, probabilmente con il coinvolgimento di Daniela Santanchè, attuale Ministro del Turismo; è quanto è emerso agli occhi del grosso pubblico in occasione degli scandali che hanno coinvolto proprio la Santanchè: ne abbiamo parlato in data 17 luglio (vedi link https://www.ulisseonline.it/controluce/le-spine-della-meloni/).
È chiaro che non tutti gli stabilimenti balneari sono del livello del Twiga, dove uno spazio di metri 4×4 con ombrelloni e sedie costa 18milioni al mese, e sono in corso accertamenti per vedere quanti milioni incassi in una stagione e quale sia la tassa che versa al Comune per la concessione; ma se tanto dà tanto è probabile che i Comuni incassino ben poco da tali concessioni.
I dati indicati prima non sono discordanti con le conclusioni del tavolo tecnico sulle concessioni balneari istituito a Palazzo Chigi che stima libero il 67% delle nostre coste, e in concessione solo il 33%: in pratica i 2/3 delle coste balneabili sono libere.
Questo consentirebbe di superare la direttiva Bolkestein la quale impone che non debbano essere più rinnovate le attuali concessioni, e che le aree destinate alla balneazione vadano assegnate con procedure pubbliche, trasparenti e non discriminatorie ai migliori offerenti, togliendo ai Comuni ogni possibilità di intervento.
Per capirci: finora erano i Comuni a gestire le aree e assegnarle, ora queste aree dovrebbero andare all’asta, alla quale potrebbero partecipare gruppi turistici che potrebbero mettere fuori gioco i piccoli concessionari i quali rischiano di dover cedere le aree da un giorno all’altro.
È chiaro che i gli attuali concessionari minaccino guerra totale, sostenuti, fino a settembre scorso, da Giorgia Meloni in campagna elettorale, la quale oggi si trova tra due fuochi: l’obbligo di dover applicare la direttiva europea e l’impegno preso con i balneari di evitare la perdita delle concessioni, impegno che ha indotto molti di loro a votare il suo partito Fd’I.
Ma lo scenario potrebbe cambiare sulla base dei dati sopra riportati.
Il dato con cui si conclude il lavoro del tavolo tecnico a Palazzo Chigi è per le associazioni balneari la conferma che la risorsa naturale disponibile non è scarsa (67%) e quindi non si applicherebbe al settore la direttiva Bolkestein.
Se così fosse, e ci auguriamo che lo sia, i concessionari delle aree balneari italiani potrebbero stare tranquilli.
Il problema, comunque, non è risolto, perché l’Italia comunque si dovrà confrontare con la UE e il tutto si potrebbe ribaltare.
Frattanto l’anno balneare 2023 si è quasi concluso, sono pochi gli stabilimenti ancora aperti in virtù di questa coda di estate che non accenna a fermarsi, quindi il prosieguo si giocherà tra la fine di quest’anno ed i primi sei mesi del 2024.
Speriamo che, con tanta buona volontà, le posizioni tra noi e l’UE si avvicinino e che i balneari italiani possano affrontare il futuro con maggiore tranquillità.
Questo, comunque, è anche un banco di prova per il governo per fare chiarezza sugli effettivi introiti dei balneari da raffrontare, ovviamente, con quelli che essi pagano ai Comuni e allo Stato; in Italia si contano circa 15mila concessioni balneari che introiterebbero circa 4.miliardi, ma lo Stato incasserebbe appena 100.milioni l’anno: una media di meno di 6,5.mila euro a stabilimento, ma spesso non si arriva a 2.500.