L’avanzare della storia incontra a volte curve drammatiche e inaspettate che mutano radicalmente i paesaggi del vivere, individuale e collettivo. Nella giravolta della storia, la dimensione sociale cessa di essere un luogo da vivere nel quotidiano impegno di ciascuno e si accontenta di una rappresentazione, la realtà si limita a essere un fenomeno da osservare più che uno spazio nel quale ricostruire una stabilità complessiva. La pandemia è uno di questi improvvisi e imprevisti cambiamenti.Il virus ha aggredito una società già stanca. Provata da anni di resistenza alla divaricazione dei redditi e alla decrescita degli investimenti, incerta sulle prospettive future, con un modello di sviluppo troppo fragile: una società indebolita nel suo scheletro complessivo, ma ancora sufficientemente vitale per resistere e combattere a favore della risalita.
Quest’anno siamo stati incapaci di visione. La distribuzione indifferenziata di bonus e sussidi di ogni ordine e genere ha calmierato le difficoltà di imprese e famiglie. Il blocco dei licenziamenti e la Cassa integrazione in deroga hanno posto un argine al rischio di trasferire sui soggetti più deboli gli effetti della riduzione della produzione. Ma il debito pubblico è stato accresciuto in misura rilevante, ponendo un ulteriore fardello sulle prossime generazioni. Il sentiero di crescita prospettato si prefigura come un modesto calpestio di annunci già troppe volte pronunciati: un sentiero di bassa valle più che un’alta via. E oggi l’attesa si è trasformata in disorientamento, la semplificazione delle soluzioni nell’emergenza è diventata una sottovalutazione dei problemi, il contagio della paura rischia di mutare in rabbia.
In tutte le epoche di crisi, la società italiana ha resistito e ha saputo rilanciare grazie a un curioso e originale intreccio dei suoi tessuti costituenti. Ma la realtà odierna ci impone di prendere atto che il Paese si muove in condizioni troppo rischiose per non presupporre una nuova azione sistemica della mano pubblica. Tutti avvertono che per rimettere in cammino l’economia e risaldare la società occorrono interventi concreti e in profondità.
Andare, in fretta. Ma verso dove? In primo luogo verso un nuovo schema fiscale, perché non sono più tollerabili le distorsioni che pongono a carico degli onesti l’illegalità degli evasori. Mentre una riduzione generalizzata e indistinta delle tasse non appare, almeno nel breve periodo, un obiettivo coerente con la dimensione del debito pubblico e con gli impegni a sostegno del reddito e della crescita.
In secondo luogo, un ridisegno del sistema industriale e un ripensamento della qualità degli investimenti a sostegno della produzione, dell’innovazione, delle esportazioni appare prioritario, uscendo dall’indistinto aiuto a tutti, dall’impegno al ristoro come sussidio generalizzato, riconducendo invece in una politica industriale percorribile la pletora di microinterventi già decisi o in via di approvazione. A questa rimodulazione sistemica delle uscite per le imprese è poi funzionale un nuovo assetto della ricerca scientifica e del trasferimento tecnologico.
In terzo luogo, è necessario un ripensamento strutturale dei sistemi e sottosistemi territoriali. Il dibattito sul Mezzogiorno affonda precipitosamente e si impone la nuova questione settentrionale. Se da un lato le regioni settentrionali sono esposte al rischio di diventare una periferia a minore valore aggiunto dei sistemi produttivi nordeuropei, dall’altro sono poste nelle condizioni di cogliere tutte le opportunità che il nuovo quadro dell’industria europea va configurando.
Infine, l’anno che si va chiudendo obbliga a rivedere le attribuzioni di ruolo, identità, funzioni e responsabilità dei soggetti del terzo settore: un po’ attori e progettisti dell’intervento sociale, un po’ ammortizzatori dell’inefficienza pubblica.
Nel timore e con cautela, il nostro Paese aspetta e sa di avere risorse, competenze, intuizione ed esperienza per ricostruire i sistemi portanti dello sviluppo. Sa che dal suo geniale fervore traspira rapido il nuovo. Attende di sentire, quando dopo le lacrime altro non si avrà da offrire che fatica e sudore, il richiamo a rimettere mano al campo, senza volgersi indietro, guardando e gestendo il solco, arando diritti. (fonte Censis)