Dicembre 2019-gennaio 2020, scoppia l’epidemia a Wuhan, in Cina. In Europa molti scienziati e governi fanno spallucce, roba da gente con la pelle gialla. Non si fa nemmeno a tempo a rifletterci che viene registrato a Codogno, provincia di Lodi, Lombardia, il primo caso autoctono in Italia. A poche ore di distanza un altro caso a Vo’ Euganeo, provincia di Padova, Veneto. I casi si moltiplicano, primi decessi. Il virus si diffonde.
Il 30 gennaio l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) proclama l’emergenza sanitaria globale. Siamo alla pandemia. Il 31 gennaio il primo ministro dell’Italia a sua volta proclama lo stato d’emergenza, cioè l’apertura di una fase in cui alcune libertà costituzionali – a cominciare da quella cardinale in democrazia, il diritto di voto – vengono sospese al fine della protezione di un bene superiore, l’incolumità delle persone. È legale sospendere le libertà individuali per un bene pubblico? Molti se lo stanno chiedendo.
In Costituzione non c’è una disciplina dello stato d’eccezione, che viene di fatto demandata alle leggi ordinarie. Quella di riferimento è la L. 225/92, istitutiva della Protezione Civile Nazionale. Essa nell’art. 5, c. 2, precisa i limiti temporali massimi dello stato di emergenza: 180 giorni, prorogabili di altri 180. Stiamo ancora nei termini.
Attenzione però, la dichiarazione dello stato d’emergenza, nel consentire la sospensione di alcune libertà – ad esempio, nel nostro caso, quelle della mobilità personale e di riunione delle persone – richiama altresì il principio della proporzionalità delle misure rispetto ai presupposti di fatto. Ad adiuvandum del mio ragionamento richiamo la Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici delle Nazioni Unite, sottoscritta dallo Stato Italiano. Essa vieta, anche nelle situazioni emergenziali e di eccezione, di “derogare dai principi della libertà di pensiero, coscienza e religione”.
E qui viene il punto: il divieto imposto alla Chiesa ed alle altre organizzazioni confessionali, di tenere aperti i luoghi di culto e di celebrarvi i riti, viola l’obbligo di cui alla Convenzione Internazionale?
Bisogna contemperare, nel nostro ragionamento, questo diritto con l’inderogabile dovere da parte dei governi di tutelare l’incolumità pubblica. “Di fronte a situazioni emergenziali – scriveva Costantino Mortati, straordinario costituzionalista sui cui testi si sono formate generazioni di giuristi e tra i padri della nostra Carta – il diritto non è in grado di imbrigliare i fatti”. E i fatti a marzo erano le migliaia di morti, i crematori insufficienti a smaltire il carico di salme, le terapie intensive senza più un posto libero. Sarebbe stata pura follia autorizzare o addirittura organizzare riunioni religiose o sportive, o politiche.
Bene ha fatto dunque il nostro governo a marzo a vietare con rigore la pratica comunitaria della preghiera dei fedeli. Nel mio piccolo ho apprezzato questa decisione e ancora di più, la fermezza con cui la Chiesa cattolica ha aderito a tale decretazione.
I dubbi – miei e di tanti uomini di fede, di cultura e di diritto ben più autorevoli di me – sorgono nel momento in cui la potenza virale del Sars-Cov-2 è scemata. Sì, perché è palese a tutti che il contagio è in fase calante, fenomeno più consistente nel Sud. Lo Stato italiano si è posto perciò il problema della fuoriuscita dallo stato di eccezione, la cosiddetta fase 2.
Giustamente è stata consultata ogni sorta di competenza ed è stata stabilita una tempistica del ritorno alla vita ordinaria, sia pure in obbligata convivenza col virus almeno fino al vaccino. Ritorno graduale, obbligatoriamente graduale se non si vuole riaprire le porte al contagio. A questo riguardo il Governo ha deciso di consentire l’uso dei mezzi di trasporto pubblico – per la verità mai vietato in toto – la vita culturale (librerie, musei), le visite ai congiunti ed alle persone con le quali si è in rapporto di solidi affetti, l’acquisto delle pizze, e via dicendo. In un primo momento ha vietato però la celebrazione dei riti religiosi, sulla base del presupposto dell’irresponsabilità dei fedeli e dei ministri del culto, che non avrebbero potuto garantire il distanziamento e l’uso delle mascherine. Ma scherziamo? Perché mai gli uomini religiosi dovrebbero essere per propria natura irresponsabili?
Quando, lo scorso 26 aprile, Giuseppe Conte ha annunciato questa decisione, la C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) ha reagito con fermezza. Giustamente. A mio parere giustamente. Poi è intervenuta una virtuosa interlocuzione tra Governo-Quirinale-C.E.I.-Santa Sede e si sta trovando una soluzione, fondata sul principio della moral suasion reciproca, piuttosto che sul dirigismo burocratico. Ma quella è stata una provocazione di sapore giacobino.
Per finire – posso dirla tutta? – se il rimedio sarà il sì alle messe, purché tenute all’aperto, sarà a mio avviso anche peggiore del male. Già me le immagino le piazze e le strade con i fedeli distanziati, i sacerdoti sui sagrati e gli altoparlanti al massimo volume. E no, lo dico da cattolico osservante, si rispettino anche coloro che cattolici non sono e che non possono essere obbligati a sentire messa per una decisione governativa concordata con i rappresentanti di una sola confessione.