Dal 1° marzo al 14 aprile dello scorso anno i decessi a Cava furono 82; nello stesso lasso di tempo quest’anno sono stati 65. Diciassette in meno, nonostante il coronavirus.
I contagiati in Italia finora sono stati uno ogni 372 residenti, in Campania uno ogni 1.577 abitanti, a Cava de’ Tirreni uno ogni 1.620.
Quanto ai deceduti da Covid-19 in Italia sono stati uno ogni 2.865 abitanti, in Campania uno ogni 22.315, a Cava uno ogni 8.900 residenti. Un po’ sopra la media regionale e decisamente sotto quella nazionale. Ma i decessi sono dipesi dalle condizioni di salute pregresse dei singoli contagiati, dall’efficienza maggiore o minore delle strutture sanitarie e dall’efficacia delle terapie. Le politiche di contenimento del virus messe in atto dalle autorità nazionali, regionali e comunali non vanno valutate da essi, bensì dal numero dei contagi, che, come si è visto a Cava è stato contenuto.
Insomma, ce la siamo cavata bene.
È appena il caso di sottolineare che il dolore per la perdita di persone care non potrà mai essere alleviato da considerazioni socio-statistiche. Nel dire quindi che ci è andata bene, chiedo perdono a quanti hanno sofferto per lutti che li hanno colpiti nei loro affetti personali.
C’è anche da considerare che Cava non è una grande città, grosso modo, direttamente o indirettamente ci conosciamo tutti. E dal momento che le persone che ci hanno lasciati a causa della Covid-19 erano anche ben presenti nella vita sociale della città o delle loro frazioni, la loro perdita ha emozionato la nostra comunità nel suo insieme. Tanto da amplificarne la dimensione nell’animo di ciascuno di noi.
Ma torniamo ai numeri. A mio parere – siete autorizzati a fare gli scongiuri del caso – siamo arrivati ai giorni finali della fase epidemica. Per lo meno qui in Campania, ma forse il ragionamento può valere, giorno prima giorno dopo, anche per l’Italia. È dunque il caso di cominciare a chiederci a Cava com’è andata e soprattutto come riprenderemo la nostra vita quotidiana.
Come si è visto, ci è andata bene. È il caso di darne atto a quanti tra autorità politiche, sanitarie, militari, religiose ed amministrative hanno avuto la responsabilità delle nostre vite in questi due mesi terribili. Sì, anche alle autorità religiose, che sotto la guida illuminata del Santo Padre e del nostro Pastore diocesano, non hanno aperto varchi a forme di devozionismo trasgressive rispetto agli obblighi del distanziamento sociale.
Ora, se tutto procede come pare, per la fine della settimana prossima saremo all’azzeramento della fase epidemica a Cava ed in Campania; e con ogni probabilità anche in Italia. La Covid-19 da acuta diventerà cronica, diventerà cioè una malattia endemica con la quale ci toccherà convivere fino al vaccino. Un po’ com’è per i tumori con i quali conviviamo da sempre. Ancora per alcuni mesi dunque qualcuno di noi potrà prendersi la Covid-19, ma non ci saranno più ragioni cogenti per restare agli arresti domiciliari.
E tra qualche giorno, un po’ alla volta, cominceremo ad uscire, a reincontrarci, a litigare per gli amori, i soldi, il calcio e la politica. Insomma a riprendere la vita sociale. Con le dovute cautele com’è ovvio, ma sarà finita la quarantena di massa.
Dovremo però ripensare alle forme ed alle modalità della nostra vita sociale, a cominciare dal modo di vestirci, di lavarci, di andare a scuola, di spostarci, di lavorare, di recarci nei negozi o nei ristoranti.
Ecco, in questa prospettiva sarebbe auspicabile che nessuno dimentichi, pur nel dolore per le perdite umane e nel ricordo della penosa prigionia in casa, quanto sono stati belli il silenzio, la natura, le letture e gli affetti familiari dei giorni dell’epidemia. E se provassimo a vivere anche in futuro con maggiore rispetto per la natura?