Coronavirus, non c’è nulla da festeggiare… siamo un Paese in lutto: è il momento della preghiera e del silenzio
Ieri sera, mentre preparavo per cena un bel petto di pollo con rosmarino e limone, sono trasalito sentendo, nel silenzio assordante di questi giorni, un frastuono provenire dalla strada. Per rimanere poi basito, vedendo sfrecciare una carovana di mezzi della Protezione civile, con tanto di lampeggianti e al suono dell’inno nazionale ad alto volume.
Mah, non so chi abbia avuto questa brillante idea. Vero è, e lo dico da sincero patriota, che l’inno di Mameli mai come adesso è consolatorio e in un certo qual modo è anche liberatorio ed incoraggiante. Certo è, per come si è svolta la scenetta che ho raccontato, più che una colonna di mezzi della Protezione civile sembrava di tifosi intenti a festeggiare qualche vittoria degli azzurri ai mondiali di calcio.
Purtroppo, in questi tempi di coronavirus, c’è poco da festeggiare.
Certo è che stiamo vivendo una situazione tremendamente surreale. Tanto inusuale e straordinaria che non ci si può meravigliare più di nulla, anzi, alla fine, tutto ciò che è una manifestazione di vita va salutata quantomeno con tolleranza e comprensione.
Il nemico che dobbiamo combattere è invisibile, insidioso, sconosciuto, letale. Non lo vediamo, non lo sentiamo, non lo avvertiamo in nessun modo. Eppure c’è. Esiste. Non sappiamo dove sia, non lo scorgiamo, ma incombe. Da qui le reazioni più diverse, spesso irrazionali. La fobia di alcuni. L’irresponsabilità di altri. La rassegnazione di altri ancora, spesso dei più anziani. Le esplosioni di vita come quella di suonare e cantare a squarciagola in modo liberatorio dai balconi.
Insomma, quella che stiamo vivendo è una situazione che ci pesa molto non solo per i timori che proviamo e le privazioni che ci dobbiamo imporre, ma anche per la nostra vita quotidiana così tremendamente scombussolata e stravolta.
Dicevamo che noi stiamo vivendo una situazione surreale. Noi al sud, in particolare e per fortuna. Poi basta vedere quel che succede soprattutto in Lombardia per guardare in faccia la realtà. Ed è quella terrificante delle immagini della colonna degli automezzi militari che trasportano decine e decine di bare dal cimitero di Bergamo in altri camposanti fuori regione. E’ uno strazio. Una immane tragedia. Una strage. Centinaia di morti che vanno via senza che i loro cari li possano vedere un’ultima volta. Muoiono da soli, senza i parenti al loro capezzale, per poi finire nelle bare senza i vestiti, chiusi dentro sacchi di plastica. Questo è quello che sta accadendo in Lombardia, a Bergamo in particolare, ma non solo lì.
Forse noi al Sud, che non stiamo vivendo questa atroce sciagura, dovremmo, oltre che esprimere umana solidarietà e vicinanza, far tesoro del dolore che ha investito il Nord del nostro Paese. E dovremmo non solo ringraziare il Signore per essere stati finora di fatto risparmiati da un destino così crudele e devastante, ma anche essere più consapevoli di quanto sta realmente accadendo e di quello che può succedere anche qui da noi.
Per questo, c’è poco da festeggiare… A tal proposito, sul Corriere della Sera dell’altro ieri è stata pubblicata una struggente e toccante lettera che il poeta, scrittore e regista avellinese Franco Arminio vorrebbe inviare al premier Conte, per suggerirgli di proclamare una giornata di lutto nazionale e mettere drappi neri ai balconi di ogni famiglia italiana per ricordare i morti.
Prendiamo qualche passaggio significativo di un testo che vi invito a leggere per intero (https://www.corriere.it/opinioni/20_marzo_20/giornata-lutto-drappi-neri-balconiper-ricordare-morti-88bd741a-6ad4-11ea-b40a-2e7c2eee59c6.shtml?refresh_ce).
“Morire di Coronavirus oggi è un po’ come sparire. Credo che tutto il popolo italiano si debba stringere intorno ai familiari delle vittime che ci sono state fin qui e purtroppo ci saranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Mi piacerebbe che venisse proclamata una giornata di lutto nazionale… Sarebbe bello che ogni famiglia fosse invitata ad attaccare ai balconi un piccolo drappo nero in segno di lutto, come avveniva una volta davanti alla casa del morto. Sarebbe bello che per dieci minuti, a partire da mezzogiorno, ci fosse un tempo di raccoglimento in ogni famiglia, un momento di preghiera o di silenzio, un modo per salutare idealmente tutte le persone che sono morte… Anche piangere, meditare, stare per qualche minuto in preghiera o in silenzio, può essere un grande lievito per far fronte ai momenti difficili che ancora ci aspettano… Una comunità vera deve tenere assieme i vivi e i morti”.
Sì, non c’è nulla da festeggiare. E dice bene Franco Arminio quando suggerisce di mettere ai nostri balconi un drappo nero e raccoglierci in un momento di preghiera e di silenzio per ricordare chi è andato via, perché una vera comunità nazionale deve tenere assieme i vivi e i morti.
Forse questo è anche un modo per ricordarci che contro questo virus noi tutti, noi meridionali prima degli altri, non dobbiamo abbassare la guardia, anzi.
Poi, quando tutto sarà passato, potremo festeggiare. Insieme. Abbracciandoci. Baciandoci. Dandoci la mano. In mezzo alla strada. Nelle nostre piazze. E cantare l’Inno nazionale e le tante nostre belle e amate melodie, ma dopo aver pregato ricordando quanti non ce l’avranno fatta.