Multinazionali in difficoltà: è fuga dal nostro Paese?
Siamo penultimi nell’Unione Europea per investimenti esteri
L’Ufficio studi della CGIA ricorda che non siamo un Paese attrattivo per gli investitori stranieri. Purtroppo, le tante problematiche a cui sono sottoposti quotidianamente i nostri imprenditori hanno innalzato nel tempo una ipotetica barriera d’ingresso che “dirotta” altrove gli interessi degli investitori esteri.
D’altronde, con tante tasse, una burocrazia asfissiante, poca certezza del diritto, una giustizia civile lenta e poco efficiente, tempi di pagamento della nostra Pubblica Amministrazione tra i più elevati d’Europa e un deficit infrastrutturale spaventoso, non c’è da meravigliarsi se l’Italia si colloca al penultimo posto nell’Unione Europea per gli Investimenti Diretti Esteri (IDE). Nel 2018, infatti, questi ultimi ammontavano al 20,5 per cento del Pil, pari a 361,1 miliardi di euro. Tra i paesi dell’Unione Europea monitorati dall’OCSE, solo la Grecia registra un risultato peggiore del nostro.
Pertanto, con pochi investimenti stranieri e molte holding in procinto di lasciare l’Italia, come fa la politica nazionale a sottovalutare questi segnali così preoccupanti? Dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, Paolo Zabeo:
“Premesso che, ad esempio, ArcelorMittal, Embraco, Whirlpool e molte altre multinazionali non sono certo delle onlus, ma delle realtà fortemente determinate a perseguire i propri interessi spesso in barba agli accordi preventivamente sottoscritti con le parti sociali, è altrettanto evidente che le responsabilità di un loro possibile addio vanno ricercate anche in un clima generale di avversione nei confronti delle aziende presenti nel nostro Paese. In Italia, infatti, si avverte in molti strati della società e della Pubblica Amministrazione una cultura del sospetto verso gli imprenditori che condiziona negativamente la crescita e lo sviluppo”.
Secondo gli ultimi dati Istat disponibili (anno 2017), le multinazionali, ovvero le imprese a controllo estero residenti in Italia, sfiorano le 15.000 unità, danno lavoro a poco più di 1.350.000 addetti e producono 572,3 miliardi di euro di fatturato all’anno.
L’elenco delle big company straniere più importanti che nel 2019 sono state al centro della cronaca sindacale sono: ArcelorMittal (Taranto), Bekaert (Incisa Valdarno – Fi), Bosch (Bari), ex-Embraco (Riva di Chieri – To), Unilever (Verona) e Whirlpool (Napoli).
Tra i grandi marchi del “made in Italy” che stanno vivendo momenti difficili segnaliamo Alitalia (Roma), Ferriera (Trieste), Gruppo Ferrarini (Reggio Emilia), La Perla (Bologna), Pernigotti (Novi Ligure – Al) e Stefanel (Ponte di Piave – Tv).
Il caso Ikea: incertezza e burocrazia bloccano le aperture ad Arese e Verona.
Premesso che – soprattutto nel Veneto – non si sentiva certol’esigenza di aprire un nuovo megastore, il caso Ikea, scoppiato in queste ore, è comunque emblematico nell’evidenziare l’avversione culturale che esiste nel Paese nei confronti di chi fa impresa.
La multinazionale svedese ha deciso di rinunciare all’apertura di due nuovi punti vendita da 35-40 mila metri quadri ad Arese e Verona.
Pare, stando alle indiscrezioni apparse sulla stampa specializzata, che le motivazioni di questo abbandono siano riconducibili all’incertezza innescata dalla politica, che in più di una circostanza ha ventilato l’ipotesi di non consentire l’apertura domenicale e, in particolar modo per il progetto scaligero, i ritardi e i rinvii accumulati in questi ultimi mesi per l’individuazione dell’area, a seguito dell’elevato numero di adempimenti burocratici ed amministrativi sorti nel frattempo.
Insomma, un altro caso in cui la mancanza di certezza legislativa e le lungaggini burocratiche hanno fatto desistere un investitore straniero. (fonte CGIA)