Chi non ricorda il vecchio e glorioso “juke-box” che ha accompagnato le giornate al mare, i pomeriggi al bar o le serate invernali in discoteche improvvisate, quando le moderne discoteche non erano ancora nate?
E quanti amori giovanili sono sbocciati accanto a quello scatolone di legno, vetro e plastica all’interno dei quale erano in bella mostra diecine di dischi in vinile 45 giri, e tanti di noi giovani, affascinati, osservavano la magia del braccio mobile che andava a prelevare uno di quei dischi, lo posizionava su un piatto, e c’era il braccio con la puntina che si andava a posare proprio all’inizio e all’improvviso la musica, spesso assordante, si propagava dagli altoparlanti, quasi sempre frontali e in basso, e ci faceva ballare e sognare?
E chi non ricorda che qualche volta il meccanismo si inceppava, la musica si arrestata perché il disco si fermava, e erano scappaccioni o pugni sul maledetto aggeggio che, sul più bello, interrompeva un intimo colloquio “tete-a-tete” con la damigella di turno che magari in quel momento si stava convincendo a fare una passeggiatina all’esterno del locale con l’intenzione, da parte dell’intraprendente cavaliere, di appartarsi per proseguire il dialogo in maniera più intima e lontano da occhi indiscreti?
Reminiscenze giovanili di chi da “qualche” decennio ha superato gli anni della giovinezza, che ricorda con particolare e struggente nostalgia, anni durante i quali per conquistare una “bimba” a stento si offriva un cioccolattino o, per chi se lo poteva permettere, un cono gelato, dal quale si attendeva una ricompensa probabilmente esagerata, e se andava proprio tutto bene, magari un bacino di riconoscenza l’intraprendente giovincello lo rimediava.
Altri tempi, le cui immagini sono state fissate in tanti film, alcuni belli, moltissimi banali, tantissimi scurrili, qualcuno da rivedere: ad esempio “Il casotto” di Sergio Citti, attore e allievo di Pier Paolo Pasolini, che girò il film nel 1977 (42 anni fa), e non solo quello.
I primi “Juke-box – Jukebox”, termine che in Italiano non trova corrispondenza in quanto sembra divenuto universale, comparvero in Italia negli anni ’60 del secolo scorso, ma pochi sanno che quell’aggeggio ha illustri precedenti che risalgono addirittura al 1890; esattamente il 23.11.1890 due sconosciuti ingegnosi inventori, Louis Glass e William S. Arnold, misero sul mercato un fonografo che, alimentato da monetine, emetteva musica da quattro tubi. Era una sorta di scatola magica all’interno della quale c’era un fonografo (Edison lo aveva inventato nel 1877) sul quale erano registrati brani musicali, e chi voleva ascoltarli doveva farlo attraverso il tubo da avvicinare all’orecchio.
Il primo “Jukebox” venne costruito dalla Pacific Phonograph Co. utilizzando il fonografo di Edison all’interno di una cassa di quercia. Ciascun apparecchio conteneva quattro brani e, quindi, quattro tubi, in tal modo contemporaneamente poteva servire quattro ascoltatori. I tubi venivano azionati singolarmente, ciascuno di essi attivato mediante l’inserimento di una moneta: ciò significa che quattro diversi ascoltatori potevano ascoltare contemporaneamente quatto brani. Le cronache dell’epoca riportano una curiosità: chi usava il tubo, doveva poi pulirne l’estremità con una asciugamani fornita dall’esercente.
All’origine la macchina venne chiamata da uno degli inventori (Glass) ““nickel-in-the-slot player” (in italiano “lettore musicale con monetina-in-fessura”); il primo esemplare venne installato presso il Palace Royale, e all’epoca la monetina era un nickel e valeva circa 1.euro odierno, che per quell’epoca non era poco.
L’attuale nome, “Jukebox” verrà usato molto dopo, preceduto da “Juke house”, che richiama lo “slang” (insieme di espressioni che si adoperano in luogo di quelle del linguaggio usuale, a scopo di maggiore espressività – secondo Treccani) dei bordelli, luoghi dove la musica era ben sconosciuta, perché costituiva il sottofondo per l’intrattenimento dei frequentatori.
Non è chiaro come sia nato il nome “juke-box”, secondo alcune teorie sarebbe una corruzione della parola “jook”, un termine che nello slang della gente di colore significava danzare e “box”, la scatola che riproduceva la musica.
Un’altra corrente di pensiero sostiene che “jook” significa sesso e che il “jook box” era il sistema per fare musica usato nei bordelli, mentre altri fanno risalire il termine a “jute joints”, i locali in cui i braccianti che raccoglievano la iuta si riposavano.
Oltre che per il riferimento alle case chiuse, la parola ebbe una connotazione negativa perché aveva caratterizzato anche gli “speakeasy”, i locali clandestini in cui si vendevano gli alcolici.
L’evoluzione dell’apparecchiatura si ebbe solo nel 1920 grazie alla invenzione dei dischi registrati e riprodotti elettricamente. In quell’epoca i dischi erano 78 giri di vinile, quindi ingombranti e pesanti, bisognò attendere il 1948 per avere il dischetto a 45 giri, pure di vinile ma molto più piccolo e leggero, che rivoluzionò l’ascolto della musica in quanto, proprio per le sue ridotte dimensioni, vennero introdotti sul mercato riproduttori che potevano essere facilmente trasportati, e i giovani del dopoguerra allora si trasferivano di abitazione in abitazione per organizzare i “quattro salti” domenicali; e furono prodotti anche lettori di dischi da installare nelle autovetture.
Il cuore del juke-box era il sistema per mezzo del quale i dischi, accatastati, venivano estratti per essere suonati sul piatto e poi riportati al loro posto.
Il primo esemplare risale al 1927 e venne prodotto e presentato dalla Ami che non ebbe il primato nel mercato americano.
Tutte le maggiori case produttrici svilupparono particolari sistemi, a cominciare dalla Wurlitzer, che fece del cambiadischi in mostra la sua caratteristica, e venne seguita da altre industrie che usavano sistemi diversi, chi portava il disco al piatto, chi viceversa, ma alla fine ebbe la meglio proprio la Ami il cui cambiadischi si rilevò tanto efficiente da essere utilizzato fino alla metà degli anni ’50 dello scorso secolo. Ovviamente erano anche diverse le caratteristiche estetiche delle “macchine magiche” le quali diventarono le protagoniste di un’epoca, e l’inconsapevole collante di momenti culturali e sociali, oltre che un fenomeno economico e commerciale di tutto riguardo.
La Wurlitzer, dopo il suo primo modello del 1933, segnò il record di vendite mai più eguagliato nella storia: più di 80 anni fa, nel 1936, vendette ben quarantamila juke-boxes. Ben presto anche gli altri due colossi del settore, la Seeburg e la Rock-Ola, si allinearono e iniziarono a produrre numerosi apparecchi.
L’apice fu raggiunto negli anni 40/50 dello scorso secolo: il juke-box invase i locali e i luoghi di aggregazione, diventando la colonna sonora di giorni nuovi e densi, anticipatori di lotte sconosciute e di sconfitte, di speranze incoscienti e di fallimenti. Quella “scatola luminosa e colorata” divenne parte integrante dell’ ”American way of life”, lo stile di vita americano.
La cosiddetta “musica in scatola” fu amata e odiata nello stesso tempo: l’atmosfera magica che essa portava era contrastata dai musicisti che l’accusavano di sostituirli rubando loro il lavoro.
Il fenomeno “Jukebox” andò avanti fino agli anni 60, le maggiori case produttrici si fecero una lotta spietata in un’affannosa gara senza esclusione di colpi. Il juke-box era diventato “il divertimento al prezzo di un nichelino” preferito dall’America. Esso sopravvisse fino agli anni ‘60 allorquando vi fu una decisiva spinta verso nuove tecnologie e stili.
Poco alla volta il fenomeno si ridimensionò, anche per l’avvento di Internet che ha portato alla diffusione della musica in streaming in maniera pressoché illimitata; oramai il disco di vinile aveva fatto il suo tempo, soppiantato dal “compact disk” che ha il vantaggio di non aver bisogno della puntina che scorre all’interno di un solco, in quanto la lettura del brano registrato avviene tramite un raggio laser; ci fu un calo vertiginoso della produzione dei vecchi dischetti, anche se da qualche anno c’è una fascia di musicofili che si sta nuovamente orientando verso i vecchi dischi di vinile, sia a 45 che a 78 giri, ma è una fascia di nicchia che probabilmente lo fa più per ostentazione che per praticità, un poco com’è avvenuto con la fotografia e la cinematografia digitale che ha fatto crollare il mercato delle macchine fotografiche e cineprese con rullini e filmini in favore delle più pratiche ed economiche apparecchiature digitali.
Comunque ora che i colori dei “Jukebox” sono sbiaditi, le luci rotte e i dischi fermi, sarebbe bello soffiare via la polvere dagli ultimi esemplari ancora chiusi in qualche buio magazzino e riscoprire il fascino del suono impreciso, sporcato dallo stridore del disco solcato dalla puntina metallica, durante la esecuzione di un pezzo di Bing Crosby, Frank Sinatra o Elvis Presley, o magari di un Claudio Villa, Domenico Modugno o una Nilla Pizzi: il fascino irraggiungibile di un’epoca tramontana che in tanti rimpiangono.
225.11.2019 – Da non dimenticare anche i The Platters o il Quartetto Cetra. Nino Maiorino