Uomini d’oro, così sono chiamati coloro che si trovano in possesso di una ricchezza insperata, della quale sono venuti in possesso anche in maniera non lecita.
E’ questo il significato del titolo del film “Gli uomini d’oro”, del trentatreenne regista, attore e sceneggiatore salernitano Vincenzo Alfieri, da pochi giorni nelle sale cinematografiche, che sembra riscuotere un discreto successo di pubblico, un po’ meno della critica.
E in effetti è un film pasticciato, che, nonostante la bravura degli attori, quasi tutti poco conosciuti, è pesante, a volte incomprensibile, ripetitivo, e poco piacevole.
E questo nonostante la storia vera che l’ha ispirato e sulla quale è stato costruito, un colossale furto ai danni delle poste di Torino avvenuto nel luglio del 1996, la cui ricostruzione, se utilizzata bene, avrebbe potuto diventare un ottimo film “noir”.
Tre delusi impiegati postali, addetti alla raccolta dei soldi nei vari sportelli postali della città, qualcuno al limite della pensione, vengono delusi dal provvedimento dell’allora Premier Lamberto Dini il quale operò il primo allungamento della data pensionabile.
Uno di essi, Luigi, il ciarliero napoletano che sulla pensione e sulla relativa liquidazione aveva programmato la sua vita futura in Costarica, il paese dell’America centrale di quasi 5 milioni di abitanti, alla ricerca della “fica”: attenzione, non è una brutta parola in quanto in quel paese sta a indicare la “fortuna”, derivante dal bassissimo tenore di vita e dall’alto potere di acquisto della nostra moneta.
La sua vita lavorativa, alla luce di questa notizia, si appesantisce ulteriormente, e, nel trasportare quotidianamente col furgone blindato milioni e milioni, ha l’idea di appropriarsi di un carico e scappare nell’agognato eden.
Coinvolge nel progetto il caposcorta Alvise, un torinese deluso dalla vita, dalla famiglia, dal lavoro e dalla misera paga, e un terzo, pure meridionale accanito sostenitore della squadra del cuore e per questo in perenne contrasto con gli altri.
Il furto, pure se organizzato in maniera abbastanza sommaria, va a buon fine, e il terzetto riesce ad impossessarsi di oltre 2.miliardi di lire; ma emergono contrasti tra i tre ai quali si è aggiunto il pugile Lupo, oramai del tutto fuori gioco e l’ambiguo Boutique, un sarto d’alta moda, strozzino e intrallazzatore, del quale qualcuno di essi è debitore.
Alla fine l’ideatore napoletano e il tifoso vengono ammazzati, il torinese caposcorta Alvise si impossessa dell’intera somma e la fa scomparire, il pugile Lupo e la sua compagna brasiliano ammazzano lo strozzino Boutique del quale sono vittime e vanno alla disperata ricerca del bottino, frattanto sparito, e il caposcorta Alvise, già sofferente di cuore, muore d’infarto per colpa della moglie che, assalita dalla gelosia, non gli fornisce l’alibi per la sera in cui è sparita la somma.
La magistratura, all’epoca, pure dopo aver ricostruito l’accaduto e individuato i responsabili, non riuscì mai a ritrovare la ingente somma rubata, che nella ricostruzione cinematografica Alvise ha lasciato proprio alla moglie e alla figlia piccola.
Una bella storia “noir” che purtroppo il regista non ha saputo tramutare in un buon film, realizzando un papocchio stancante e deludente. Ha voluto strafare, raccontando la storia tre volte da tre diversi punti di vista, impegno che prevedeva tutt’altra storia, come ad esempio quella raccontata, con tale tecnica, nel film di Paolo Virzì “Il capitale umano”, del 2013, nel quale, però, la storia drammatica di un incidente automobilistico del quale era rimasto vittima un cameriere al rientro dal lavoro, veniva effettivamente riportata dai tre punti di vista dei probabili investitori, intorno ai quali si intrecciavano storie pregnanti dei vari protagonisti. E comunque storia e regista erano di tutt’altro spessore.
Per “Gli uomini d’oro” di Vincenzo Alfieri ricordiamo una battuta di Paolo Villaggio nel “Secondo tragico Fantozzi” che stroncò il film “La corazzata Potemkin” con la frase “una ca… ta pazzesca”.