Lo chiamano nocino mentre nei quartieri più antichi di Napoli c’è ancora chi continua a riferirsi a questo liquore definendolo “merecina”, la medicina. È il nocino, anche conosciuto come “nucill“, l’elisir liquoroso panacea di tutti i mali.
La ricetta prevede che nell’alcool vadano messi in infusione 13 noci, 13 chicchi di caffè crudi e 13 tostati, 3 chiodi di garofano, 3 cortecce di cannella e 3 cucchiai di zucchero.
Una credenza secolare è che nella fase solstiziale dell’anno le streghe fossero solite darsi convegno nella notte tra il 23 ed il 24 giugno attorno ad un antichissimo albero di noce, e con i frutti di questi alberi stregati, colti ancora verdi e madidi di rugiada nella notte di San Giovanni, si preparava il nocino.
Il culto del noce come “albero delle streghe” è di origine druidica.
I contadini piantano il noce a distanza dagli altri alberi da frutto perchè era radicata la credenza che questo albero ermafrodita, che può raggiungere anche i 300 anni di età, fosse velenoso e che la sua influenza negativa contagiasse il terreno su cui poggiava.
Il perche’ tutto ciò avvenga proprio nella magica notte di san Giovanni ha una duplice spiegazione: gli erboristi, definiscono questo periodo come “tempo balsamico”, la noce si trova nel suo momento migliore con i profumi derivanti dalla maggior presenza di linfa, oli e vitamine, mentre meno attendibile scientificamente ma sicuramente più seducente è invece, la tesi che attribuisce la scelta della data al solstizio d’estate che per il calendario precedente a quello Gregoriano non cadeva il 21 giugno, ma il 24. Dunque, nella notte del trionfo della luce sulle tenebre, le streghe si raccoglievano sotto i rami degli alberi di noce per i loro demoniaci sabba.
Secondo la tradizione, la notte di San Giovanni, 24 giugno, le donne con lunghe scale e piccoli panieri di vimini rivestiti all’interno con tele di sacco scomparivano nel buio della campagna, per poi riunirsi sotto il noce. La più esperta, a piedi nudi , saliva sulla scala, sceglieva le noci più adatte e più integre, le toccava appena per non togliere il velo di rugiada, e le riponeva delicatamente nel paniere. Nel frattempo nell’aia erano stati accesi dei falò: qui si depositavano a terra, su sacchi vuoti, le noci appena raccolte affinché potessero ricevere ancora, fino al mattino, la guazza notturna. Una volta tagliate in quattro le noci venivano poste, assieme all’alcool, in vasi di vetro ed esposte al sole per 40 o 60 giorni.