La vicenda che ha portato alla cessazione delle pubblicazioni del quotidiano “la Città” è la rappresentazione di qualcosa che va oltre la vertenza sindacale tra editori e giornalisti.
La procedura posta in essere non ha precedenti in Italia e proietta ombre sulle capacità imprenditoriali locali nell’intraprendere iniziative nella editoria giornalistica.
La scarsa attitudine ad investire nella informazione della carta stampata in Campania è un dato storico dopo l’esperienza dell’armatore Achille Lauro costretto dal potere politico a mollare prestigiose e diffuse testate.
Ciò che è accaduto con la chiusura de “La Città” è inspiegabile come progetto industriale di chi ha deciso di gettare la spugna a distanza di 26 mesi (meno del periodo minimo per testare una programmazione imprenditoriale) dall’acquisizione della proprietà, con relative obbligazioni, di un ramo di azienda di un gruppo editoriale strutturato in termini di rapporti sociali e di lavoro.
Sul punto sorgono dubbi di avventatezze progettuali o ipotesi di calcoli politici il cui scambio non avrebbe prodotto i business sperati. In entrambi i casi l’avventura prevale sulla ponderazione dell’analisi costi/ricavi.
Lo scioglimento della società editoriale in risposta allo sciopero dei giornalisti non ha nulla a che fare con la crisi dell’editoria già conclamata all’atto dell’acquisto della testata; né la chiusura della porta della redazione al rientro dei giornalisti ha riscontro nel galateo dei rapporti sindacali all’interno di una azienda che ha voglia di vivere.
E’ più facile immaginare un contesto di antropologia socio-culturale in cui l’informazione è concepita come merce di scambio.
Allora si capirebbe il rovesciamento del tavolo da parte del giocatore in bolletta. O del baro?