Nel 2013 il Regista Paolo Virzì presentò il film dal titolo “Il capitale umano” che riscosse notevole successo, sia per la interessante costruzione della storia e per la tecnica di raccontare più volte lo stesso episodio visto da angolazioni diverse, sia per il valore degli interpreti, tutti noti attori italiani, tanto che l’opera venne designata anche per l’Oscar come miglior film straniero.
La storia parte dall’investimento di un cameriere da parte di un Suv, alla cui guida era una persona diversa dal proprietario, ed evidenzia una intricata storia di rapporti tra i vari personaggi attraverso la quale l’investigatore deve ricostruire l’accaduto per individuare il vero responsabile e giungere alla attribuzione della responsabilità e ai conseguenti iter giudiziari, in sede penale per la condanna del responsabile, e in sede civile per la quantificazione del “valore umano” della vittima e il conseguente risarcimento dei familiari: in quel caso il risarcimento venne fissato in circa 219.mila euro, tanto fu il “valore umano” attribuito dagli esperti.
La cinematografia di autore ha il pregio di anticipare situazioni o avvenimenti rispetto alla presa di coscienza degli stessi da parte dei “comuni mortali”; ho citato frequentemente la celebre scena del film “La dolce vita” di Federico Fellini, quella del traffico automobilistico imbottigliato sotto un tunnel, con automobilisti pazienti o esasperati bloccati nei grovigli di lamiere, nel mentre il regista immaginava di liberarsi dall’abbraccio della lamiera e volare al di sopra dell’intasamento; cosa che allora sembrava una esasperazione in quanto di rado si verificava, ma che oggi è di attualità e non fa più notizia.
E anche Virzì anticipò un tema che sarebbe poi diventato pregnante come è oggi, allorquando veniamo a conoscenza di sentenze, come quella dell’omicidio di Ladispoli, che ci sconvolgono in quanto non si ritiene possibile che la vita di una persona abbia un valore tanto basso da determinare una condanna di soli 5.anni per l’assassino di un essere umano.
Ma quello di Ladispoili non è il solo caso che ci sconvolge.
In questi giorni è stata scarcerata, per aver scontato la pena, Annamaria Franzoni, condannata a 11 anni di detenzione dei quali sei in carcere e cinque ai domiciliari; la giustizia è fatta, l’assassina, oramai riconosciuta, anche se la Franzoni continua a proclamarsi innocente, ha scontato la pena, e io mi chiedo come sia possibile che un bimbo di tre anni, massacrato dalla madre in un modo tanto orrendo, sia stato valutato tanto poco da far condannare l’assassino alla pena di soli undici anni di cui solo sei di effettiva carcerazione.
Tantissimi sono i casi che potrebbero essere citati, ma tutti hanno un denominatore comune: la contezza del valore minimo attribuito dalla legge alla vita di un uomo.
In passato nei paesi che oggi si definiscono civili e progrediti, chi commetteva un delitto pagava con la propria vita; il che, riducendo esasperatamente al minimo il confronto, stava a significare che la vita di un uomo ammazzato valeva quanto la vita del suo assassino, per cui quest’ultimo pagava il suo debito alla società con la sua stessa vita.
Ma questo sistema ad un certo momento non venne più considerato accettabile, ritenendo che le pena di morte fosse troppo dura anche per il peggiore degli assassini, che la pena non dovesse mai prevedere la morte, e il periodo di detenzione dovesse essere considerato non tanto una condanna da espiare, ma piuttosto un periodo di riabilitazione durante il quale l’assassino deve rendersi conto del delitto commesso, risalire la china dal baratro che glielo ha suggerito fino alla consapevole convinzione di aver commesso un errore, pentirsi del male commesso e giungere così alla riabilitazione e al reinserimento nella società.
Finalità belle e buone, ma per la massima parte zeppe di retorica e di ampollosità, che in tanti casi oltre a non sortire l’effetto riabilitativo del reo, ottengono l’effetto opposto di non impedire che altri commettano gli stessi delitti, magari con la consapevolezza che, con una buona difesa, utilizzando le leggi esistenti e i cavilli procedurali previsti, alla fine può uscirsene con condanne miti e, magari, espiate in condizioni di incredibili comodità e circondati dalla benevola attenzione di tanti pseudo moralisti e angeli della riabilitazione che, in molti casi, sono stati, come suol dirsi, traditi e gabbati: valga per tutti l’esempio del furbo Fabrizio Corona e dell’ingenuo Don Antonio Mazzi il quale ultimo, da riabilitatore del Corona, si è trasformato in un inconcludente filantropo che è rimasto con un pugno di mosche, nel mentre l’altro continua a commettere reati con la accondiscendenza di non si sa bene chi!
Ma tutto ciò non può essere sempre e solo imputato ai giudici, piuttosto alle leggi che trattano la materia dei delitti e delle pene, le quali, segnatamente ai casi di omicidio, dovrebbero partire da un valore minimo della vita di un uomo al di sotto del quale non si deve mai scendere. E non parlo del “capitale umano”, inteso come valore venale di un uomo calcolato sulla base dell’età, dell’attività, delle prospettive di vita e di carriera, che sono valori estrinsechi, esteriori, superficiali di un individuo, ma piuttosto di quelli intrinsechi, interni, sostanziali che rendono quell’essere umano una goccia che, sommata alle gocce di milioni o miliardi di altri esseri umani, determina il valore del genere umano.
Mi rendo conto che un discorso difficile da affrontare e da accettare, e che chiede un qualcosa difficile da valorizzare, per la oggettiva difficoltà di trasformare una vita umana in un valore.
Ma se il problema non verrà affrontato e risolto, non potranno mai essere abolite le storture alle quali abbiamo assistito e alle tante altre alle quali purtroppo assisteremo, e nessuno avrà mai la garanzia che episodi come, ad esempio, quello che ha portato alla disabilità permanente del giovane nuotatore Manuel Bortuzzo, vittima di due delinquenti, ora in carcere, che lo hanno colpito per errore scambiandolo per un altro, verranno adeguatamente valutati mettendo in relazione il valore della vita del giovane alla pena che i due dovranno scontare; con le attuali norme potremo trovarci di fronte a un nuovo caso di pena inadeguata rispetto alla gravità del delitto commesso e della disabilità procurata.